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Fenestrelle, il luogo della memoria

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CASSINO (FR) - Fenestrelle, una fortezza monumentale, adagiata nella verde ed amena valle del Chisone, ad un tiro di schioppo da Pinerolo, nel cuore valdese del Piemonte. Una costruzione tozza ma imponente con la sua serie infinita di bastioni sovrapposti. Un serpente sinuoso ma possente che con le casematte, i posti di guardia e gli alloggiamenti, segna l’esile crinale del monte in tutta la sua lunghezza.

Qualsiasi fotografia, anche la più ben fatta, non rende merito alla conformazione fisica della struttura che non ha eguali nel continente europeo. Sono arrivato lì in una calda mattinata di inizio luglio. L’afa era mitigata da una gradevole e fresca brezza che lì, in quella valle immersa nella natura incontaminata, spira incessante, dando ristoro al corpo e alla mente. Entrando nel forte, superato un ponte levatoio, dopo breve salita, sono approdato nella piazza d’armi. E lì, immediatamente, alzando gli occhi e lo sguardo verso l’alto, ho toccato con mano cosa hanno provato i nostri soldati quando, negli ultimi mesi del 1860, ad ondate successive, sono stati lì trasferiti dal porto di Genova.

Ma di cosa erano colpevoli quei poveretti? Di aver tentato di difendere fino all’ultimo il loro legittimo sovrano, al quale avevano giurato eterna lealtà ed obbedienza, dall’invasore sabaudo. E così sono stati rinchiusi senza troppi riguardi in quel carcere tetro nelle cui anguste celle erano già stati gettati, qualche settimana prima, i militi papalini, anch’essi “colpevoli” di essersi schierati a protezione del successore romano di Pietro. A dimostrazione di quanto sia spietata la legge del più forte, di chi è solito usare il sopruso e la prevaricazione per conseguire fini illeciti e propositi malvagi.

Leggendo le note contenute in qualche libro, scritto da chi è evidentemente contiguo a quel “modus operandi”, mi era quasi sembrato che Fenestrelle fosse, in realtà, un lussuoso resort a cinque stelle oppure una serie di suite degne del miglior Club Mediterranée. Ma è bastato soltanto respirare l’aria di quel posto per comprendere quanto fosse distorto il pensiero dei nostri “amici” buontemponi. Quel forte, infatti, gronda di dolore, di sofferenza, di patimenti. Girando per le tenebrose stanze, con le anguste finestre chiuse da una pesante inferriata che dà pienamente il senso della invalicabilità, sembra di sentire ancora riecheggiare, cupi e sinistri, i rantoli dei carcerati, dei prigionieri, di chi è stato lì rinchiuso, strappato ai suoi affetti più cari e alla sua patria, per la quale aveva deciso di sacrificarsi malgrado la situazione non fosse delle migliori.

Nessuno riuscirà mai ad accertare con assoluta certezza quanti furono i soldati borbonici a morire in quella spettrale fortezza. Ma la cosa, poi, a ben vedere, non è così importante. Anche se fosse morto uno solo di quei militari, caro prof. Barbero, si sarebbe trattato di un delitto efferato e senza giustificazione alcuna. Un barbaro omicidio perpetrato ai danni di chi si era macchiato di una sola “colpa”: quella di rimanere fedele al suo re ed ai suoi ideali. Una “colpa” che avrebbe dovuto essere premiata, additata come esempio di onestà e non punita con il carcere duro in quel di Fenestrelle. In quella prigione venivano inviati i militari che avevano bisogno di essere “rieducati” alla disciplina. Ma i soldati napoletani non avevano alcun bisogno di essere “rieducati” in quanto portatori sani di valori indelebili che nessun sopruso, neanche il più duro, avrebbe potuto mai cancellare.

Ecco perché chi oggi va a Fenestrelle compie un vero e proprio pellegrinaggio. Ecco perché quella fortezza, ad onta dei ringhiosi molossi dell’ortodossia risorgimentale, sempre pronti ad azzannare chi tenta di portare a galla un barlume di verità storica, è diventata un luogo simbolo del martirio subito dai nostri connazionali. E non può essere di certo una sterile quanto macabra operazione di contabilità, che sembra tanto appassionare qualcuno, a togliere a quel posto adagiato lì, nella verde valle del Chisone, la patina, forse ingiallita ma ancora perfettamente intellegibile, di “luogo della memoria”. La memoria di chi è stato colpito, vilipeso, infangato, spazzato via e privato di ogni cosa, persino della dignità.

Ogni anno, lassù, a Fenestrelle, sfidando i sempre pressanti problemi organizzativi e, ancor di più, l’indifferenza dei più e l’ostracismo di tanti, l’amico Duccio Mallamaci, un calabrese purosangue da tempo in “esilio” in quel di Torino, organizza una “giornata della memoria”. Quest’anno, nella chiesa posta nella antica piazza d’armi, si è tenuto anche un interessante convegno con la partecipazione di diverse anime revisioniste ed identitarie. Alcune provenienti dal profondo nord o giù di lì. E’ stata l’ennesima occasione per ricordare quei poveretti che ebbero la sventura di conoscere il “resort” pentastellato di Fenestrelle. E magari recitare sommessamente una preghiera per le loro anime inquiete. Un piccolo ma grande gesto che va incentivato e perpetuato negli anni a venire, perché serve a mantenere viva la fin troppo esile fiammella del ricordo.

Chi non è mai stato a Fenestrelle, si organizzi per andarci. Da solo o in compagnia poco importa. E giunto lì, ai piedi di quella imponente fortezza, si inginocchi di fronte ad essa. Ad essa che conserva ancora il dolore, le lacrime e il sangue dei soldati napoletani. Quei soldati offesi da una storia troppo partigiana e bugiarda che ormai sta cominciando a mostrare tutte le sue crepe. Proprio come quella vecchia e rugosa signora cui il trucco, sia pure ben modellato sul viso, non riesce più a celare l’incedere inarrestabile del tempo. E se ciò sta accadendo è anche merito di chi, tra mille difficoltà e mille problemi, continua a mantenere ben alto il candido vessillo della verità.

Quella verità che nessuno, neanche il più feroce dei molossi, riuscirà mai a cancellare. Per questo è importante andare a Fenestrelle. E chi ci va sa già che, prima o poi, ritornerà. Lì, infatti, c’è un pezzo della nostra storia che non può essere abbandonato all’oblio e, meno che mai, all’oltraggio e alla menzogna. Come quella colossale che ha partorito la cosiddetta “unità d’Italia”.


Fernando Riccardi

Fonte: Istituto di Ricerca Storica delle Due Sicilie

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