FROSINONE - Troppo presi dai giochi di palazzo ai quali la politica ci ha ormai abituati, quasi non ci accorgiamo che l'Italia si sta spappolando, sta crollando rovinosamente, in una parola sta perdendo la sua compattezza. Ammesso poi che essa sia mai stata unita per davvero. Il recente plebiscito che ha chiamato ad esprimersi più di 2 milioni di cittadini del Veneto i quali, con una maggioranza bulgara (l'89%), hanno dichiarato di volersi affrancare dallo stato italiano fin troppo rapace e patrigno, è soltanto l'ultimo atto di un processo di sfaldamento che, prima o poi, interesserà altri pezzi della nazione.
E non è poi così importante sapere chi per primo tra Trentino, Friuli, Lombardia, Toscana, Sardegna o Sicilia, si incamminerà sulla strada che conduce alla autonomia da un Stato che non è più tale. Il Veneto, in tal senso, potrebbe aver acceso la miccia indicando il percorso da seguire, avendo sempre come irrinunciabile stella polare il principio dell'autodeterminazione dei popoli. Principio che sancisce il diritto di un popolo di poter scegliere in maniera autonoma il proprio ordinamento statuale e politico. E stiamo parlando, si badi bene, non di una pratica antidemocratica ma di una norma di diritto internazionale che produce effetti giuridici in tutti gli stati, ivi compreso l'ordinamento italiano. Ma non è proprio di questo che vogliamo parlare. Né degli effetti concreti che produrrà nel paese il plebiscito veneto. Anche se la reazione immediata e scomposta della magistratura la dice lunga sui timori che regnano in alto loco dove, in ossequio alla sempiterna logica gattopardesca, tutto si manovra affinchè niente possa cambiare. Invece, scavando un po' più all'interno del problema, la domanda che vogliamo porre è la seguente: perché tanti pezzi d'Italia vogliono affrancarsi dallo stato nazionale? Venti anni fa era solo la Lega a parlare di secessione, di allontanare il Lombardo-Veneto, cuore pulsante dell'economia nazionale, da “Roma ladrona”. E per questo fu più facile spegnere il fuoco che pure bruciava impetuoso.
Quando poi gli esponenti leghisti rimasero invischiati nelle subdole pastoie governative e parlamentari (ricordate come Bossi era corteggiato, alla stregua di una bella donna, sia da destra che da sinistra?), i toni fatalmente si stemperarono e si passò dalla secessione al federalismo. Ora, però, la situazione è diversa e le spinte autonomiste, alimentate vigorosamente dal malcontento e dalla disperazione, sono variegate e provengono da più parti e da diverse latitudini. A dimostrazione che più di qualcosa non regge più. Oggi è lo Stato unitario che viene messo pesantemente in discussione e siccome, Renzi o non Renzi, nessuno crede più nei miracoli, si va alla ricerca di altre ricette, tra cui quelle dirompenti legate all'identità ed all'autonomia. Proprio il messaggio forte e chiaro che scaturisce da quel plebiscito veneto che non è la subdola messa in scena orchestrata nell'ottobre del 1860 da Cavour e dai suoi sodali per legittimare, con un voto palesemente taroccato, l'aggessione “manu militari” al meridione della Penisola, ma un qualcosa di tremendamente serio che i distratti osservatori dei giorni nostri farebbero bene a non sottovalutare. E, a proposito di storia, non si può dimenticare il modo, a dir poco antidemocratico, con cui si raggiunse la cosiddetta “unità d'Italia”. Garibaldi prima e i Savoia subito dopo, non ci pensarono su due volte a costringere sotto uno stesso tetto regioni e popoli che da sempre avevano goduto di una ampia e totale autonomia. E lo fecero usando la forza devastante delle armi e i metodi brutali dei colonizzatori. Altro che anelito insopprimibile di fratellanza... Sapete poi come, nel 1866, il Veneto entrò a far parte dell'Italia? Finita la cosiddetta III guerra di indipendenza, l'Italia, alleata con la Prussia contro l'eterna nemica Austria, non era riuscita a cavare con le operazioni militari un ragno dal buco. Anzi, ad onor del vero, aveva subito una disastrosa sconfitta navale in quel di Lissa (20 luglio).