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Home News ed Eventi Prima relazione della Commemorazione dei Caduti del Volturno 2013

Prima relazione della Commemorazione dei Caduti del Volturno 2013

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Europa, il ritorno dei piccoli Stati.
Autonomie e Piccole patrie.
Gennaro Grimolizzi
In questi giorni l’Italia e l’Europa fanno i conti con la tragedia consumatasi al largo di Lampedusa e la morte di decine e decine di immigrati desiderosi di raggiungere il “vecchio continente”. Ancora una volta gli interrogativi sul ruolo delle istituzioni europee, percepite lontane dai cittadini e senza cuore, anche per fronteggiare emergenze come il tentativo di migliaia di disperati di trovare condizioni di vita migliori, si fanno sempre più dirompenti.
Questo intervento verte su una breve analisi del concetto di  Piccole patrie, intese come micro-realtà territoriali, connotate da precisi elementi storici, linguistici e territoriali, alle quali l’Europa dei popoli – non quella dei tecnocrati  - dovrebbe volgere più spesso uno sguardo attento e benevolo. Il modello delle Piccole patrie, intese come micro-realtà territoriali che su base identitaria regolano la comunità entro determinati e ristretti confini per una popolazione limitata numericamente, si affianca e contrappone a quello dello Stato-nazione.
Gli spunti di riflessione per la stesura della presente relazione sono offerti da alcuni studi di Cesare Catà (già ricercatore nell’Università di Macerata) e dello storico Franco Cardini, medievista di fama internazionale.
La questione delle Piccole patrie rientra in un ragionamento che non prende necessariamente in considerazione gli aspetti geopolitici, essendo centrale il tema dell’individuo ed il suo legame con i luoghi di origine, l’appartenenza ad una data comunità, la lingua e le tradizioni di determinati luoghi.
«Possiamo dire – osserva Cesare Catà – che laddove nel modello di Stato-Nazione moderno troviamo un individuo inteso come “quel singolo”, chiamato a instaurare e realizzare legami estrinseci con la sua comunità e le strutture atte a governarne l’andamento, al contrario nel caso delle Piccole patrie il singolo soggetto è una realtà che declina intrinsecamente la dimensione “politica”, in senso aristotelico, della sua esistenza. Una tale differenza, che parrebbe in prima istanza possedere uno statuto astrattamente speculativo, possiede al contrario delle immediate ricadute da un punto di vista giuridico, economico e sociale».
Il dibattito degli anni passati sulle radici cristiane nei consessi degli euro-burocrati e tecnocrati di Bruxelles ha svilito non poco l’analisi sull’essenza dell’Europa e la sua identità, ma al tempo stesso ha risvegliato l’attenzione sulle Piccole patrie e sull’esigenza di una partecipazione e di un vivere civile che lo Stato-nazione ha quasi del tutto accantonato. La “ricostruzione” dal basso dell’Europa quale comunità ha come punto di riferimento l’unità culturale delle Piccole patrie con le proprie strutture governative su base identitaria «di tipo tradizionale e linguistico». L’unità culturale delle differenti tradizioni costituisce le fondamenta dell’unica unitas europea. Le Piccole patrie non sono, dunque, un elemento di «opposizione allo spirito europeo», ma il terreno fertile su cui lanciare il seme della riaffermazione del medesimo spirito.
Di particolare interesse le affermazioni di Jan Patocka – ribattezzato da qualcuno come il “Socrate di Praga” –, autore del saggio intitolato Platone e l’Europa (Milano, 1997). Scrive Patocka:
«Si parla senza fine dell’Europa in senso politico, ma si trascura la questione del sapere cosa essa è veramente e dove è nata. Noi pretendiamo di parlare dell’unificazione dell’Europa. Ma l’Europa è qualcosa che si può davvero unificare? Si tratta di un concetto geografico o puramente politico? No. Se vogliamo affrontare la questione dalla nostra situazione presente, dobbiamo comprendere che l’Europa è un concetto che si basa su fondamenti spirituali e così si capisce cosa significa la domanda».
Le Piccole patrie trovarono in Martin Heidegger uno strenuo difensore ed uno studioso molto attento. Il filosofo tedesco critica la dimensione globale proiettata dagli Stati-nazione e la contrappone ad una analisi ed esaltazione della realtà rurale e delle piccole comunità. In questa dimensione ristretta sono più marcati i confini territoriali e gli elementi identitari. Senza queste componenti, rileva Heidegger, lo smarrimento umano è inevitabile. Tempo, spazio e uomo (inteso come “ente temporale”) sono i tre pilastri fondamentali della sua analisi e di quello che viene definito “radicamento ontologico”. Tra il singolo uomo e la sua terra di appartenenza sussiste un legame strutturale. I concetti espressi da Heidegger consentono di individuare le differenze tra il modello interpretativo delle Piccole patrie e quello dello Stato-nazione. Nelle Piccole patrie di derivazione heideggeriana l’uomo è considerato nella sua temporalità. È un concetto di non poco conto questo, in grado di individuare la differenza con la concezione di Stato-nazione in cui l’uomo è invece considerato solo come “mera presenza”.
Non si tratta, come giustamente evidenzia Catà, di un «bizantinismo speculativo, bensì di un modello interpretativo di riferimento al quale si debbono importanti risvolti sul piano governativo, sociale ed etico».
Le tre componenti della ricostruzione heideggeriana prevedevano la collocazione dell’essere nel mondo in un circoscritto universo spaziale, la Piccola patria (Landschaft), che ha avuto massimo splendore nel periodo medievale-rinascimentale. Tale periodo storico segna il formidabile sviluppo della struttura urbano-comunitaria dell’Italia e dell’Europa premoderna, che, presenta una duplice estraneità al mondo dello Stato-nazione. Il primo elemento si riferisce all’esperienza territoriale del tutto sganciata dal centralismo della funzione statale. Il secondo concerne la struttura urbano-comunitaria, collocata in uno scenario geopolitico vasto «non riconducibile allo Stato specifico».
Secondo Franco Cardini, lo sviluppo dell’Italia moderna, con il primato conseguito dallo Stato-nazione, ha rappresentato la “pietra di inciampo” delle Piccole patrie, le quali, comunque, non si sono estinte.
Il processo storico che ha portato all’affermazione dello Stato-nazione non ha implicato un azzeramento di realtà territoriali, che, seppur di dimensioni assai ridotte, hanno conservato identità “sub-nazionali” all’interno di precisi confini territoriali. Questa “conservazione” di entità territoriali ha determinato il sorgere delle “Nazioni senza Stato” (composte da gruppi etnici con precise caratteristiche linguistiche, antropologiche e folkloriche), coincidenti con le più volte richiamate Piccole patrie europee.
Hans-Hermann Hoppe esalta il ruolo delle Piccole di patrie, auspicando un ritorno a tale modello organizzativo comunitario.
Lo studioso tedesco si lancia in una dura critica dello Stato-nazione, il cui modello si è imposto con la Modernità ed ha generato quella che poi è divenuta la “vita civile occidentale”.
Hoppe considera la Piccola patria - con i suoi riferimenti culturali,  il suo quadro antropologico di convivenza comunitaria - un’ancora di salvezza per l’Europa contemporanea, quasi in ginocchio, colpita ai fianchi dalla globalizzazione e dal primato della finanza sull’uomo. L’insieme delle realtà rurali e provinciali, con le radici ben salde nelle peculiarità etno-linguistiche e culturali dei popoli europei, in questo periodo storico di tempestoso smarrimento, è tutt’altro che un anacronistico desiderio di regionalismo.
Nell’analisi che qui ci occupa vorrei anche porre l’attenzione sul tema, attualissimo, del “Veneto nazione storica d’Europa”. A tal riguardo occorre prendere in considerazione le seguenti entità territoriali: Europa, Italia e Veneto. La prima stenta a nascere come realtà istituzionale federale capace di darsi un parlamento rappresentativo e sovrano che approva vere leggi, cogenti per tutti, e organi di governo effettivi e su base federale, competenti in materia di politica estera, monetaria, militare, giudiziaria, lasciando a entità minori, gli Stati federati, la competenza esclusiva in tutte le altre materie. La seconda, come tutti gli Stati risorgimentali sorti senza il consenso popolare, ha finito il suo tempo ed ha imboccato la via inesorabile del declino. L’Italia è, ormai, una democrazia apparente ed impotente, con istituzioni fagocitate, corrose e corrotte, superata dalla burocrazia imperante e asfissiante. Oggi le istituzioni sono state, infatti, invase e sostituite da una burocrazia sofisticata quanto fallimentare improntata su inutili quanto perniciosi formalismi, ma disinteressata alle regole elementari della efficienza, della responsabilità e dei risultati utili per i cittadini. Infine il Veneto, Nazione storica d’Europa, Stato sovrano ed indipendente per ben 1100 anni, ha un passato di forte e radicata identità, di collaudata efficienza organizzativa, di autorevolezza istituzionale, di comunanza di valori condivisi, oltreché di lingua, di costumi e di tradizioni, ancor oggi fortemente marcati in tutto il territorio, di quella che fu la Repubblica Serenissima per cui legittimamente cerca di riaprire la sua strada per un futuro migliore.
Come ha sostenuto Alessio Morosin, avvocato veneziano ed autore del recente saggio intitolato Autodeterminazione, «la storia non è acqua: un popolo non si crea dal nulla e, se esiste, nulla lo può annientare: risorgerà e tornerà ad essere protagonista del proprio futuro. Il processo di omologazione centralista che l’Italia savoiarda ha tentato di fare col Veneto è fallito miseramente». Si è fatta l’Italia ma non sono mai stati fatti gli italiani. Fu questa una preoccupazione già di Massimo D’Azeglio. Per fare gli italiani bisognava, innanzitutto, fare un’Italia confederata come auspicato dai pensatori, come Cattaneo e perfino Cavour, più attenti e rispettosi delle enormi diversità, mai livellate, dei territori e delle genti della penisola. A detta di Morosin, la sovranità popolare deve tornare realmente protagonista «per delineare, per aree omogenee, nuove realtà ed entità sovrane unite da un vero patto sociale condiviso o da patti confederali del tutto inediti in un contesto che può e deve essere ormai di rilevanza europea».
Nella notte tra l’8 ed il 9 maggio 1997 l’assalto da parte degli otto Serenissimi al Campanile di Piazza San Marco, a Venezia, ha acceso i riflettori su un tema relegato – volutamente –  nell’ombra: l’autodeterminazione del Veneto, terra della “Serenissima Repubblica”, Repubblica indipendente e sovrana nell’Europa dei popoli. L’autodeterminazione dei popoli, ovvero il diritto/libertà di decidere da sé e per sé di una Comunità/Entità, come il Veneto, portatrice di una perdurante specifica identità, è diventato un diritto universale e cogente solo dopo la Seconda guerra mondiale, dopo la sua ufficiale consacrazione nel testo della Carta delle Nazioni Unite. In precedenza l’autodeterminazione costituiva un mero principio politico, una teoria, un’idea di libertà che, peraltro, aveva avuto, storicamente, già due importanti precedenti nel caso della rivoluzione francese, esempio di autodeterminazione interna poi esportata in Europa, e nel caso della rivoluzione americana, esempio di autodeterminazione interna poi diventata autodeterminazione esterna.
Trattandosi di un diritto naturale, inalienabile ed indisponibile, il diritto all’autodeterminazione trova la sua forza generatrice nella sua pre-esistenza ad ogni struttura ordinamentale o fonte, creata dall’uomo. Ne consegue che questo diritto viene prima dei diritti stabili delle leggi dello Stato. Il 4 luglio 1776 le tredici colonie britanniche che rivendicarono ed esercitarono, di fatto, il loro naturale diritto all’autodeterminazione interna, contro il loro sovrano Re Giorgio III, nel dichiarare unilateralmente la loro indipendenza dal Regno Unito affermarono solennemente di aver agito in forza di verità auto-evidenti e di diritti naturali inalienabili. Nel suo libro Alessio Morosin pone all’attenzione dei lettori le “istanze indipendentiste” del Veneto. Il giurista veneziano sostiene che tali istanze formalmente non potranno, ed ontologicamente non dovranno, essere discusse nel Parlamento italiano. «Roma», afferma Morosin «è solo un soggetto legittimato passivo nel procedimento di autodeterminazione del Popolo Veneto in quanto essa, anche in forza della Risoluzione ONU 2625 del 24 ottobre 1970, da un lato “ha il dovere di rispettare questi diritti …” e dall’altro “deve astenersi dall’esercitare azioni di forza volte a privare i popoli … del loro diritto alla libertà, all’indipendenza e all’autodeterminazione”».
Il vero carattere precettivo e direttamente cogente, ovvero giuridicamente obbligatorio e vincolante dal punto di vista del diritto internazionale, del diritto di autodeterminazione, deriva dalla Carta dell’ONU la quale è, a tutti gli effetti, un Trattato internazionale che disciplina i rapporti interstatali sulla base di norme obbligatorie di risultato e non di norme di indirizzo meramente programmatico. Non può non richiamarsi, inoltre, il fatto che l’UNESCO - si veda il Rapporto 22 febbraio 1990 - dopo aver affermato, tra l’altro, che «Alcuni diritti dei popoli sono accettati universalmente. Tra questi vi sono il diritto all’esistenza, il diritto dei popoli all’autodeterminazione e altri diritti», conclude chiarendo che vi è stretta una relazione tra diritti dei popoli e diritti umani e che «entrambe queste categorie di diritti dovrebbero essere considerate come strettamente connesse a difesa dell’essere umano». È evidente una volta di più che l’essere umano, singolo o associato, viene prima di ogni struttura o apparato statale, pertanto, così come il diritto di libertà contraddistingue e dà “titolo” alla soggettività individuale dell’essere umano, è evidente che il diritto di autodeterminazione dei popoli contraddistingue e dà “titolo” alla soggettività internazionale del Popolo Veneto in atto di autodeterminarsi. Dunque, l’autodeterminazione del Veneto, terra della Serenissima Repubblica non passa per il Parlamento di Roma, ma costituisce un atto di autodeterminazione unilaterale, legittimamente ufficializzabile dopo l’esito del referendum tra i Veneti avente ad oggetto il quesito «Vuoi che il Veneto diventi una Repubblica indipendente e sovrana? SI  -  NO», contenuto nel progetto di legge 342 del 2013 presso il Consiglio Regionale del Veneto. In tal senso si pone anche il parere consultivo reso dalla Corte Internazionale di Giustizia del 22 luglio 2010, la quale ha risolto i dubbi relativi alla portata del «principio di integrità territoriale», nel caso dell’Italia l’art. 5 della Costituzione sull’unità e indivisibilità dello Stato, affermando che tale portata «è limitata alla sfera delle relazioni interstatuali» con l’esclusione delle Comunità interne, ad esempio il Veneto rispetto all’Italia, in atto di esercitare il diritto all’autodeterminazione dei popoli.
La via democratica è l’unica da perseguire. Il raggiungimento degli obiettivi prefissati dalle popolazioni venete può e deve avvenire in modo pacifico, attraverso referendum o plebisciti democratici e, naturalmente, nel rispetto delle fonti e delle norme del diritto internazionale ai quali deve conformarsi anche il diritto costituzionale interno in forza dell’art. 10 della Costistuzione, il quale prevede che «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» e, di fatto, esclude che le norme del diritto consuetudinario internazionale (fonti primarie), ma anche le norme pattizie dei trattati come il Trattato di New York del dicembre 1966 (fonti secondarie) siano subordinate alle norme del diritto interno. Nel caso del Veneto, prima ancora delle ragioni giuridiche, il diritto all’indipendenza, e quindi al ritorno alla piena sovranità statuale del suo popolo attraverso lo strumento dell’autodeterminazione, appare giustificato e difendibile anche in forza delle argomentazioni storiche addotte in svariati consessi. La popolazione del Veneto attuale costituisce una Nazione a sé, che si identifica ancora con la gloriosa storia della millenaria Repubblica di San Marco, le cui tradizioni culturali, le memorie istituzionali, la lingua, il territorio e le radici comuni dei valori di solidarietà, laboriosità, identità sono ancora fortemente percepiti, marcati e vissuti.
Il Veneto manifesta ancor oggi i suoi tratti, universalmente riconosciuti, di storica Nazione sovrana d’Europa. Nel Trattato di pace di Vienna, tra Austria e Italia, del 22 ottobre 1866 si stabilì che il passaggio del Veneto all’Italia doveva avvenire «sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate». Tale previsione fu voluta e imposta all’Italia savoiarda perché la diplomazia internazionale di allora riconosceva de facto e de jure in capo al Popolo Veneto il “titolo” della sua sovranità nazionale originaria, così come esercitato per ben 1100 anni con autorevolezza e rispetto nel mondo intero. Il diritto di un popolo all’esercizio della propria sovranità non può essere né conculcato, né rinunciato, né tantomeno oggetto di disposizione irreversibile. Ai veneti fu chiesto nel 1866 con una consultazione plebiscitaria – una vera e propria “truffa” a detta di Indro Montanelli -, se intendevano o meno “associarsi” al regno sabaudo. Le lucide argomentazioni dell’avvocato Morosin non fanno una piega. In forza anche della consultazione plebiscitaria, indetta quasi centocinquanta anni fa, il popolo veneto ha ancora oggi la legittima facoltà di decidere sul proprio futuro.


1 Cesare Catà, I limiti della contea, in Atti del XVI Corso dell’Università d’Estate di San Marino (Il Cerchio, Rimini, 2012).
2 Hans-Herman Hoppe, Democrazia: il dio che ha fallito (Liberilibri, Macerata, 2006).

 

Fonte: Istituto di ricerca storica delle Due Sicilie

Prima relazione della Commemorazione dei Caduti del Volturno 2013
Ultimo aggiornamento Sabato 11 Gennaio 2014 14:48  

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