Il sogno di Bentinck (dopo il disastro siciliano): Genova all'Inghilterra!‏

Lunedì 21 Luglio 2014 19:35 Roberto Della Rocca
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CASERTA - Dopo aver miseramente fallito nel suo progetto di dominio della Sicilia, Lord William Bentinck, non esitò a tentare di inglobare nei dominions di sua Maestà britannica nientemeno che la secolare repubblica di Genova, già morta a causa dell'occupazione napoleonica (e prima ancora consumata da secoli di crisi e immobilismo politico). L'Inghilterra aveva trovato la strada spianata in Sicilia e in Sardegna dove la corte borbonica e quella sabauda non avevano esitato ad aprire le porte dei governi locali nell'ottica della alleanza anti francese per la riconquista dei rispettivi regni. In una situazione del tutto particolare e delicata si trovavano i popoli degli stati italiani che erano formalmente spariti dalla mappa politica d'Europa con le invasioni napoleoniche ed erano, per di più, privi di rappresentanti o monarchi che potessero reclamare, protestare ufficialmente, pretendere.

La rovinosa caduta di Napoleone aveva accelerato la rottura tra la corte di Palermo e quella di Londra mentre si andavano rinsaldando i rapporti tra quest'ultima e Cagliari dove Vittorio Emanuele I manteneva in piedi il Governo piemontese in esilio. Ferdinando IV, ringalluzzito soprattutto dal sostegno del cugino spagnolo, aveva recuperato il controllo sulla Sicilia ottenendo la partenza del viceré Bentinck, e aveva ottime chance di recuperare il trono di Napoli a danno di Murat. Ma a noi interessa soprattutto seguire la parabola del Bentinck che, nel mese di marzo del 1814, sbarcò a Livorno e, credendo di essere ancora in Spagna al seguito di Wellington, con i suoi 8mila soldati reduci dalla Sicilia, lanciò un appello a tutti gli italiani credendo di stuzzicare l'orgoglio della nazione. Peccato per lui che, i livornesi (e più in generale i popoli toscani), non avessero una idea precisa di questa nazione italiana che doveva contribuire a sgominare le guarnigioni degli occupanti francesi. "Gli italiani non hanno la tempra degli spagnoli" avrebbe commentato di fronte alle divisioni tra filo britannici, filo murattiani (l'usurpatore a Napoli coltivava il sogno di accreditarsi come nuovo alleato della coalizione anti Napoleonica e ottenere il controllo della penisola italiana) e tradizionalisti filo asburgici, puntando verso Genova dove il caos era esploso e vecchie aspirazioni indipendentiste avrebbero fatto il gioco degli inglesi. Bentinck non esitò a far proclami e promesse di libertà e indipendenza ritrovata. Il ritorno della "Superba" che avrebbe consentito di ritrovare la centralità genovese in un mondo che aveva dimenticato la gloria dell'antica repubblica.

I genovesi carezzarono il sogno e si appoggiarono alle promesse di Bentinck pur di non fare la fine del topo e finire annessi al Piemonte dei Savoia che reclamava un ingrandimento territoriale verso il mare, nelle stanze dei bottoni di Vienna. Al Congresso delle potenze europee, chiamato a ridisegnare la mappa d'Europa dopo l'esperienza napoleonica, il problema di Genova venne derubricato a meno di una questione di secondo ordine e accantonato. Il pilastro che però si andava defilando a Vienna come portante del futuro assetto politico del continente era quello della legittimità degli antichi sovrani e dei vecchi stati. Impossibile da credere che un siffatto principio non potesse trovare applicazione per Genova (oltre che per Venezia), eppure così non fu. L'ultimo doge genovese, il marchese Giacomo Maria Brignole (unico nella storia ad essere eletto per due volte alla carica massima dell'antica repubblica), aveva aperto le porte di Genova ai francesi abdicando il 26 giugno 1797 e aprendo la strada all'instaurazione della repubblica ligure che, formalmente indipendente, era poco più di una appendice francese. Distinguendosi in questo dal veneziano Ludovico Manin, che combatté fino alla fine i francesi (rendendo la soppressione della repubblica veneta del 1815 ancora più bruciante), Brignole fu addirittura coinvolto nelle istituzioni del nuovo stato e nominato presidente del governo provvisorio fino al gennaio 1798. Una situazione di sfaldamento delle istituzioni locali che sarebbe stata ben sfruttata da Vittorio Emanuele I per ottenere il tanto agognato ingrandimento territoriale.

A Vienna i delegati sabaudi ottennero più di una rassicurazione sul fatto che sia Vienna che Londra avrebbero sostenuto le pretese del loro Sovrano anche se restava da vincere la forte resistenza francese. Il capolavoro politico di Metternich sarebbe stato anche il capolavoro politico di Talleyrand, il ministro degli Esteri di Napoleone (di cui fu sostenitore attivo durante gli anni dell'ascesa) e oggi al servizio del restaurato Luigi XVIII. L'ex Arcivescovo di Autan riuscì a far rientrare nel massimo consesso diplomatico e politico europeo la Francia che era stata devastata dall'ultima guerra delle potenze coalizzate. Una revanche che gli avrebbe consentito di salvare lo Stato separandone i destini in modo netto e chiaro dal suo "stupratore", ovvero l'ex Imperatore esiliato all'Elba. Un progetto politico che resse anche ai 100 giorni e avviò un epoca nuova nelle relazioni tra gli stati. Gli aristocratici genovesi, ansiosi di conservare il peso politico avuto durante l'Impero e preoccupati di recuperare le antiche prerogative, tentarono di appellarsi al popolo ligure aizzandone le ali più estremiste. Torino non poteva competere con Genova, per storia, cultura e tradizioni. La repubblica vantava una storia di empori e colonie in tutto il mondo, un impero repubblicano che aveva spadroneggiato nel Mar Nero e difeso attivamente Costantinopoli fino alla conquista del 1453 e che, da allora, si era battuta degnamente in difesa della cristianità contro i turchi e i berberi, nonché concedendo, tramite i suoi banchieri, prestiti ai sovrani di mezza Europa. Un orgoglio che non poteva essere calpestato in questo modo concedendo la perla genovese alla provincialissima Torino. Invece questo andava defilandosi e Bentinck, anziché aderire ai placet di Londra e pacificare gli animi, continuò a creare scompiglio. Il Lord arrivato dalla Sicilia era infatti un whig convinto, un libera di primo piano e, per questo, malvisto dal ministro degli Esteri inglese, l'ultraconservatore Lord Castlereagh che già aveva stabilito di cedere Genova ai Savoia. A convincerlo di questo fu proprio il comportamento che l'ultimo doge di Genova, e tutta la classe politica della Superba avevano tenuto in occasione dell'invasione francese. A giocare un ruolo di primo piano fu l'ambasciatore sardo a Londra, Cesare Ambrogio San Martino conte di Aglié. Nato nel 1770 ed esponente di una delle famiglie più in vista della Torino sabauda, Aglié fu uno dei diplomatici più importanti del periodo ma, a differenza del napoletano Marzio Mastrilli Duca di Gallo (ministro degli esteri di Ferdinando IV, Gioacchino Murat e ancora di Ferdinando I dopo il 1815), lavorò nelle segrete stanze dei governi tenendosi lontano dalle luci della ribalta.

La sede della sua azione fu dal 1812 al 1837 Londra e Nello Rosselli, autore di un volume sui rapporti diplomatici anglo-sardi, lo rimprovera proprio di eccessiva riservatezza oltre che di essere indolente ed eccessivamente anglofilo. Anglofilia che lascia pensare ad una adesione alla massoneria di rito scozzese ed anti francese. Con i suoi memoriali, sotto forma di lettere personali indirizzate a Lord Castlereagh, lanciò una dura accusa all'establishment genovese. In una missiva del 16 giugno 1814 scriveva: "Il solo esame della carta geografica dimostra che Genova e il Piemonte devono far parte di un medesimo Stato. Da un lato stanno i prodotti, dall'altro i canali per l'esportazione e l'importazione". Un discorso, quello economico, che non poteva lasciare indifferenti gli inglesi. Ricordando poi di come i genovesi avevano aperto le porte ai francesi, in ogni epoca, pur di salvaguardare i loro interessi economici, completò l'opera. "E' attraverso Genova che i francesi hanno sfondato nel 1794, che si sono sostenuti e hanno trovato i mezzi per entrare in Piemonte nel 1796... E' la resistenza di Genova che ha provocato la catastrofe degli austriaci e la perdita dell'Italia nel 1800. In ogni tempo, la Francia ha attribuito il più grande interesse a conservare lo Stato di Genova nella sua integrità. Non è forse una prova che il contrario è l'interesse dell'Inghilterra. Genova ha sempre venduto ai francesi l'accesso all'Italia, la sua indipendenza e infine, la propria esistenza". Nella mente del ministro britannico Genova era spacciata. Ovviamente non per motivi di filantropia filo sabauda, anzi. Come al solito gli inglesi badavano esclusivamente ai propri interessi. La Gran Bretagna stava vivendo i primi, entusiasmanti e confusi anni della rivoluzione industriale.

La produzione industriale era aumentata a dismisura e i prodotti inglesi, che già durante l'epoca napoleonica avevano sofferto del lungo blocco continentale, si stavano accantonando nei magazzini, fatto che avrebbe compromesso la produzione futura e l'occupazione. Genova al Piemonte significava invece avere un punto commerciale per la penetrazione delle merci britanniche verso nuovi mercati, innanzitutto la Svizzera, il nord dell'Italia, l'Austria, il sud della Germania e i Balcani. Bentinck ricevette così il ben servito dalla madrepatria e dovette imbarcarsi rapidamente con le sue giubbe rosse lasciando allo sbando il Governo Provvisorio. Girolamo Serra, nominato il 26 aprile 1814 a capo dell'esecutivo genovese tentò di tenere duro e resistere ma il 26 dicembre dello stesso anno, da Vienna, arrivò la condanna a morte della repubblica di Genova. Vittorio Emanuele I avrebbe incamerato la Liguria e Genova avrebbe visti svanire in modo definitivo i sogni di rinascita. Bentinck avrebbe vissuto gli ultimi anni della sua vita in India dove avrebbe gestito l'organizzazione dell'impero britannico nell'Asia meridionale. Le cose non andarono poi, come gli inglesi avevano sperato e poterono sperimentare il comportamento sabaudo. Vittorio Emanuele I, bel lungi dall'essere realista nella conduzione dei suoi affari (e rincuorato dalla restaurazione appena verificatasi) progetto la costruzione di una flotta militare e commerciale che in una lettera al fratello Carlo Felice non esitò a definire "superba". In pratica tentò di farsi cedere a costo zero tutte le navi di piccolo e medio cabotaggio che erano in numero eccedente nella Royal Navy.

Gli inglesi invece, se è pur vero che si ritrovavano con un notevole numero di navi in eccesso (dovute al quindicennio di guerra con Napoleone), non avevano alcuna intenzione di regalare il loro tonnellaggio, soprattutto ad un Sovrano, come Vittorio Emanule I, che poteva vantare finanze in buono stato e un cospicuo patrimonio personale. A quel punto il Re di Sardegna impose alla Camera di commercio di Genova una tassa come contributo forzoso per regalare una fregata al Sovrano e nominò alla guida del Tesoro il genovese Carlo Maria Brignole, discendente dell'ultimo doge che aveva, col suo comportamento filofrancese, condannato la Superba. I mercanti inglesi, ipotizzando che si trattasse di una ritorsione del Brignole, rifiutarono di sottoporsi alla gabella e presto anche gli altri mercanti cominciarono a protestare. Fu una crisi vera e propria. Il Morning Chronicle poteva scrivere in quei giorni: "A Torino il Re di Sardegna ha stabilito un governo di preti, ristabilito i gesuiti e saccheggiato il calendario dei santi per trovar dei nomi da dare a ogni piazza e a ogni via della sua capitale. Non vi si scorgon che preti, e soldati, per dar consistenza al paterno regime. Genova, al cui nome ogni inglese dovrebbe arrossire, è stata ceduta a questo sovrano, che ha già fatto rinchiudere nella cittadella di Torino molti dei principali abitanti di quella città, per aver essi sollevato qualche obiezione a diventare suoi sudditi".

Un vero e proprio j'accuse nei confronti dei metodi di Governo del Savoia che fece respirare un clima di rinnovata fiducia a Genova. Fiducia mal riposta, visto che a Londra, il primo a non ripensare a quanto partorito a Vienna, era proprio Lord Castlereagh che richiamò ufficialmente William Hill, astioso ambasciatore inglese a Torino (noto per il suo odio verso i Savoia), che aveva promosso una petizione di protesta contro i piemontesi e parlato di una vera e propria rivolta da organizzare a Genova contro l'occupante. Il ministro inglese alla Camera dei Comuni fu invece molto chiaro: "La naturalizzazione ottenuta in un Paese straniero, non scioglie i sudditi dall'obbedienza che debbono alle autorità del Paese nel quale sono nati, specie quando essi vi risiedano". La pacificazione arrivò con la rinuncia ad altre tasse per la realizzazione della flotta tante volte annunciata e con la regolarizzazione dei rapporti commerciali tra Inghilterra e Piemonte. Mai più ci sarebbe stata fiducia nei confronti di Vittorio Emanuele I e chissà con quale soddisfazione gli inglesi avranno accolto la sua abdicazione arrivata con i moti del 1820. Mai più, da allora, si sarebbero affidati solo ai sovrani di casa Savoia. All'azione a corte si sarebbero affiancate vere e proprie operazioni di intelligence a sostegno di rivoluzionari e massoni, come Pisacane, Mazzini e Garibaldi. Anche sulle macerie di Genova, insomma, si costruì la malaunità d'Italia.


ROBERTO DELLA ROCCA

Fonte: Istituto di Ricerca Storica delle Due Sicilie

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