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"Il Generale dei Briganti" è come la corazzata Potemkin.

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Daniele Liotti è Carmine Crocco

NAPOLI – "Il Generale dei briganti" è uno sceneggiato fatto bene. Sceneggiato, nulla di più. Decine di attori, di rilievo e di riciclo, scomodati per riuscire a rendere televisivo un messaggio che forse neanche nella mente più deviata, poteva prendere forma. E invece il Generale dei Briganti è riuscito nell’impresa. Carmine Crocco è un garibaldino D.o.c. pentito in calcio d’angolo a causa dei contrasti familiari col solito nobile borbonico opportunamente riciclatosi ai nuovi potenti savoiardi. Il messaggio passato è stato questo. Per quasi tutta la durata del film non si parla d’altro che dell’attività garibaldina e anti borbonica di Crocco.

In due serate viene passata al setaccio, rivisitata, romanzata e (in numerosi casi) reinventata, la sua vita privata. La madre, la cui morte viene posticipata al 1864, la sua relazione con Nennella (presumibilmente in rappresentanza di Filomena Pennacchio), il cui analfabetismo è la causa circostanziale della latitanza di Crocco, gli affetti familiari, il fratello scomparso, il padre (continuamente propenso al perdono), la sorella sfregiata e poi chiusa in convento, una figlia mai pervenuta. Situazioni e storie vere, semivere e fasulle che sono state mixate in un frullatore che ha devastato la verità storica dei fatti. Per non parlare dell’assurdità di alcune scene. Spettacolare Garibaldi a cavallo alla testa delle sue truppe. Sì e no 15 garibaldini con il fucile in mano, con un cannone che spara senza inservienti, atti a dare l’assalto alla scogliera, forse nel tentativo di aiutare un comandante Schettino d’altri tempi a evitare l’urto. Per ristrettezze di budget mancavano all’appello i figuranti bianco gigliati. Pazienza. Finchè c’è Garibaldi c’è speranza.

 

Altro momento epico è la fuga di Crocco da Napoli, ormai pronto per essere fucilato. Viene a salvarlo Ninco Nanco, conciato come un moderno Fra’ Tuck, che gli passa un coltello dalla manica con cui Crocco colpisce il comandante dei soldati. Il drappello a quel punto dovrebbe sparare contro i due ma, senza capire come, Crocco e Nanco sono già passati oltre il muro grazie all’ausilio di due corde. Il tutto con la massima tranquillità. Finzione, dicevamo. Lo sceneggiato si presta a questi stravolgimenti della realtà. Si presta anche il personaggio e qui conviene sdoppiare la critica televisiva ad una riflessione più profonda che pure va fatta. Carmine Crocco è un personaggio ambiguo. Soldato dell’esercito napoletano, poi garibaldino, partigiano per il Re in esilio e poi “brigante” per sé e per i contadini. Ambiguità che si manifesta anche nella fine della sua carriera.

Malgrado il ruolo di primo piano nella guerriglia anti piemontese, non viene ucciso ma finisce la sua vita, nel 1905, a Portoferraio, in galera. Eppure, nonostante le tante ombre, Crocco è sempre più spesso additato come l’esempio da seguire. Il Brigante per eccellenza. L’unico uomo capace. L’unico brigante che avrebbe potuto salvare il Sud. Non è così ed è la storia a dircelo. I vari Romano, Chiavone, Borges, Muraca, Trystani, Vellucci e via dicendo, non avevano nulla di meno rispetto a Crocco. Si è trattato soprattutto di storie diverse, di percorsi differenti, di circostanze generali e particolari che hanno inciso sugli esiti delle rispettive vicende. E’ stato il mito di Crocco, alimentato dal fascino del mistero che indubbiamente il personaggio possiede, a metterlo al centro di uno sceneggiato televisivo costruito ad arte sull’ambiguità di un personaggio che si dovrebbe conoscere di più ed esaltare di meno. Se pure è vero che non si trattò di un semplice criminale noi amanti della verità e del Sud abbiamo fatto troppo presto a esaltare il personaggio nonostante manchino i presupposti per una santificazione sulla fiducia.

Quella di Crocco è una personalità complessa, una storia personale difficile e una evoluzione anomala rispetto ad altri suoi comprimari e gregari. L’ideale che nel tempo ci si è costruiti di Carmine Crocco è quello tracciato da Pasquale Squitieri ne “Li chiamarono Briganti”. Anche Squitieri commette qualche imprecisione storica ma centra l’obiettivo di spiegare come mai migliaia di uomini decisero di lasciare il proprio lavoro per impugnare i fucili contro l’invasore. Nel suo film si parla chiaramente dei soprusi alla chiesa, della questione demaniale, dell’abolizione degli usi civici, della truffa della privatizzazione delle terre, della chiusura delle industrie delle Due Sicilie. Si racconta, e bene, la posizione della chiesa, in lotta per salvare sé stessa e garantire l’eternità del suo messaggio universale, così come anche si pone in luce il contrasto sociale e politico in seno ai briganti. Dal ruolo dei gregari di collegamento, come il Caruso di Squitieri, alla lotta tra i grandi come Borges e Crocco.

Ne “il Generale dei Briganti” si riesce a non nominare mai Borges. Si riesce a non parlare dell’assalto a Rionero, della presa di Melfi, del mancato assalto a Potenza. Non si capiscono le motivazioni del brigantaggio se non nel mancato rispetto degli accordi sull’amnistia da concedersi ai briganti-garibaldini.  Guardare il Generale dei Briganti è stata, senza mezzi termini, una perdita di tempo che è servita, quanto meno, a fare riflettere mentre lo sconforto aumentava col procedere dello sceneggiato. Sconforto perché, da un lato, si sommavano bugie a falsità e perché, dall’altro, la predisposizione dei meridionali “consapevoli” alla versione eroica di Crocco lo ha reso protagonista di una squallida serie da televisione di regime che ne ha, in sostanza, infangato la memoria storica.

Non si spiega altrimenti come mai non si senta la mancanza di un film che racconti l’avventura di Borjes, le vicende di Romano o la curiosa storia di Chiavone. Il punto più alto il Generale dei Briganti, lo raggiunge quando lascia la parola a Francesco II in partenza da Napoli con la Regina Maria Sofia (e stranamente i produttori e il regista, alla coppia hanno risparmiato le solite offese e falsità) quando si fa rileggere all’attore Dario Costa, una parte del messaggio di addio del Sovrano alla sua Capitale. Atto di amore più che di viltà. In sostanza, il Generale dei Briganti è stata l’ennesima occasione persa dalla Rai per svolgere il ruolo di servizio pubblico sottraendosi a quello, sempre più confacente, di servizio igienico di regime.  

Roberto Della Rocca

FONTE: Istituto di ricerca storica delle Due Sicilie

Ultimo aggiornamento Venerdì 14 Dicembre 2012 19:57  

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