(la riproduzione della locomotiva Bayard, esposta al museo di Pietrarsa)
NAPOLI - Ci sono morti che non POTEVANO essere ricordati. La loro morte DOVEVA passare inosservata. Questa la sorte dei 7 operai che, il 6 agosto 1863, vennero barbaramente aggrediti dalle forze di polizia inviate dal Questore Nicola Amore, con il compito di sedare la protesta operaia che era scoppiata nello stabilimento. Per i tanti che questa mattina si sono recati a Pietrarsa a commemorare quella strage, l’immagine non potrebbe essere più calma e tranquilla. Ampi spazi verdi, aree curate, stabilimenti riadattati a polo museale ferroviario. Molto diverso da quanto si è visto in quella mattina di 149 anni fa quando, un gruppo di oltre 450 operai occupava gli ampi spazi tra una casamatta e l’altra per protestare contro la “politica aziendale”, se così è possibile chiamarla, del proprietario degli stabilimenti, tale Jacopo Bozza.
Bozza era subentrato, nella gestione del sito, al Governo napoletano che aveva cessato la sua funzione con l’arrivo di Garibaldi e l’unificazione forzata del Regno delle Due Sicilie all’Italia. Come anche per altri beni produttivi nazionali (vedi gli stabilimenti siderurgici di Mongiana, la Real Colonia tessile di San Leucio e la Real Delizia di Carditello, i cantieri di Castellammare, gli opifici della valle del Liri) anche Pietrarsa finì sull’elenco dei desideri della nuova borghesia produttiva che, ringalluzzita dal recente avvento dei Savoia, poté mettere le mani su una larga fetta del patrimonio produttivo storico delle Due Sicilie. Ad impedire il “sacco borghese” ai danni del sistema economico e della classe lavoratrice erano stati i Sovrani delle Due Sicilie, più inclini ad amare il popolo (ricambiati) che a cercare la stima dei borghesi (che cospirarono e tradirono più di tutti nel drammatico 1860).
Non a caso svetta ancora, dopo 151 anni l’imponente statua di Ferdinando II che gli operai di Pietrarsa vollero innalzare nella parte orientale dello stabilimento per onorare il proprio Re. Erano 1050 gli operai impegnati nell’opificio quando Francesco II lasciava Napoli per fare spazio al “liberatore” Garibaldi e ai suoi compari. La cura adottata da Jacopo Bozza diede presto i suoi risultati. Nel 1863 aveva licenziato più della metà dei lavoratori e trovavano posto solo 458 lavoratori. Per chi era stato costretto a lasciare la fabbrica la via dell’emigrazione è stata quasi obbligata (come alternativa ad una vita di miseria) ma per chi era rimasto la situazione non era rosea. Bozza era un imprenditore “all’avanguardia”, esponente di spicco del liberalismo borghese che è calato sulla penisola con la forza degli unni di Attila, nascosto dietro alle baionette piemontesi e garibaldine. Più lavoro e meno salario erano diventate le parole d’ordine di Bozza che nel luglio 1863 pensò di ridurre ancora il salario. Era l’ultima goccia. Gli operai dopo diversi giorni di tensione occuparono gli stabilimenti. L’imprenditore “moderno” allertò subito le forze dell’ordine. Il Questore Nicola Amore fu solerte nell’inviare un drappello di polizia. Tra i funzionari vi era anche Antonino Campanile.
La tensione crebbe e la polizia non ci pensò due volte. Il fuoco fu intenso e a tradimento, spari per disperdere l’adunata sediziosa che si era propagata a Pietrarsa. Una protesta che già aveva suscitato la passione dei resistenti che, sulle montagne, ancora combattevano l’esercito invasore; del Governo napoletano in esilio, dove Francesco II e Maria Sofia ricevevano puntualmente le notizie sui fatti interni dell’ex Regno, e l’ilarità dei molti paesi europei divertiti nel constatare ancora una volta l’inefficacia esecutiva del Savoia. Il “popolo d’Italia”, foglio tricolorato, parlò di 7 morti e 20 feriti. Secondo il cronista, dopo i primi spari la folla operaia si era dispersa e molti avevano tentato di trovare una via di fuga in mare. Le truppe, arrivate ai parapetti delle piazzole antistanti gli stabilimenti, aprirono il fuoco sull’acqua per colpire i fuggitivi. Nicola Amore si prodigò, eccome, per non far arrivare la verità sui giornali.
Esercitò le pressioni del caso sul funzionario Campanile che era stato presente ma quest’ultimo rispose alle domande dei giornalisti e, quasi inspiegabilmente, dopo una settimana venne esonerato dall’incarico e cacciato dalla Polizia. Poco male per Amore che le notizie, seppur frammentarie, uscirono fuori dai confini dello stabilimento. Come a molti altri “padri della patria” il sangue del Sud ha procurato una carriera di successo fino a diventare Sindaco di Napoli. Lo stabilimento non si riprese più. La protesta fu l’occasione giusta per spezzare le gambe all’industria napoletana. Bozza fu ben contento di ridurre ulteriormente le spese e di trasformare l’opificio di Pietrarsa in una officina per le riparazioni dei treni italiani. Tale rimase fino al 1975 quando fu chiusa definitivamente. Il numero degli operai diminuì dopo la rivolta. Nel 1865 erano appena 100 i lavoratori. Gli altri: morti o all’estero. Tutte vittime senza nome. Le fonti borboniche parlano di un numero maggiore di caduti. I nomi a cui si è, finora, riusciti a risalire, sono quelli degli operai Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso e Aniello Olivieri.
Per loro e per tutti gli altri oltre alla morte anche l’oblio. Operai martiri del lavoro dimenticati perché la loro morte è stata causata dalle scriteriate scelte dell’Italia unita. Per questo quei morti sono paragonabili ai morti di Pontelandolfo e degli altri paesi martiti dell’Unità d’Italia. Una lapide è stata apposta nel 1996 dall’amministrazione comunale di Portici per ricordare quella strage e numerose sono state le sigle e gli uomini che si sono date appuntamento a Pietrarsa per perpetuare il ricordo di quanti perirono, non trovarono spazio nella storiografia, e che solo da pochi anni stanno tornando alla luce della memoria.
ROBERTO DELLA ROCCA
Fonte: Istituto di ricerca storica delle Due Sicilie