Il 7 settembre del 1860 Garibaldi entra trionfalmente a Napoli accolto da una folla festante e plaudente che si accalca sulle strade del centro per toccare con mano il generale di rosso vestito. Tutto è stato abilmente architettato da Liborio Romano, un campione di doppiezza capace, nel breve spazio di poche ore, di cambiare campo di gioco e, soprattutto, padrone. Non ha esitato nemmeno a scendere a patti con la criminalità organizzata affinché tutto andasse per il giusto verso. Ecco perché Garibaldi, deposta la sciabola nel fodero, arriva nella capitale viaggiando in treno da Salerno, come un qualsiasi turista della domenica. Tutto si è svolto secondo copione. La parte meridionale della Penisola, scippata con un astuto colpo di mano al Borbone, ora è nella mani di quello strano condottiero con al seguito un corposo nugolo di collaboratori, consiglieri ed aiutanti dagli appetiti insaziabili.
La presenza di Garibaldi a Napoli, però, inquieta non poco il conte di Cavour. Il piano così bene architettato rischia di saltare: il cocciuto nizzardo, infatti, vuole proseguire il cammino fino a Roma per buttare giù dal soglio “quel metro cubo di letame” di Pio IX. Bisogna fare qualcosa. Ed anche in fretta per evitare guai e sgradite sorprese. E allora che si fa? Si convince il re Savoia, Vittorio Emanuele II, a mettersi in testa all'esercito e a scendere a marce forzate verso Napoli. Scartata l'ipotesi di trasportare le truppe via mare, operazione fin troppo complicata, non resta che seguire la strada di terra partendo dall'Emilia Romagna e dalla Toscana le cui popolazioni, qualche mese prima, grazie alla ingegnosa farsa dei plebisciti, avevano manifestato la volontà di entrare a far parte del Regno di Sardegna. C'è, però, un piccolo, trascurabile dettaglio. Per arrivare a Napoli bisogna attraversare i possedimenti del papa. E qui la situazione si complica. Non si può certo dichiarare guerra al pontefice, la qualcosa avrebbe provocato la reazione delle potenze cattoliche del vecchio continente. Pio IX, d'altro canto, mai avrebbe permesso alle truppe sabaude di calpestare il suolo del suo stato. E allora il perfido Cavour ti inventa il “casus belli”, quello che avrebbe permesso di risolvere il problema.
Da qualche tempo bande di irregolari tentavano di penetrare nei possedimenti papalini con l'intento di giungere fino a Roma. Il che aveva indotto il pur riluttante Pio IX ad organizzare una sorta di esercito composto da italiani, per i due terzi, e da volontari provenienti da Francia, Austria, Irlanda, Belgio ed altri paesi cattolici europei. In breve tempo si riesce a mettere insieme 15 mila uomini affidati al comando di un generale francese, Christofe La Moriciere, che molto si era distinto nella guerra di Algeria. Un esercito che serve solo per badare all'ordine interno. Eppure Cavour, temendo per l'incolumità del suo stato, intima al papa di sciogliere il suo esercito “mercenario”. In caso contrario avrebbe dato l'ordine alle truppe piemontesi di invadere lo stato della Chiesa. Cosa che, puntualmente, avviene.
Un corpo di armata di 70 mila uomini, al comando del generale Fanti, oltrepassa la frontiera e si dirige a marce forzate in direzione di Ancona. Prima di partire ai soldati sabaudi vengono distribuite le copie di un proclama con il quale re incita i suoi uomini a “liberare le infelici province d'Italia dalla presenza di straniere compagnie di ventura”. Ancora più dure le parole del generale Cialdini, comandante del IV corpo d'armata: “Soldati, vi conduco contro una masnada di briachi stranieri che sete d'oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi. Combattete, disperdete, inesorabilmente quei compri sicari e per mano vostra sentano l'ira di un popolo che vuole la sua nazionalità e indipendenza. Soldati, l'intera Penisola domanda vendetta e, benche tarda, l'avrà”. Sul campo avverso non ci si fa troppe illusioni vista la spoporzione delle forze in campo.
La Moriciere vuole rinchiudersi con quanti più uomini nella fortezza di Ancona per resistere il più possibile all'assedio piemontese confidando nell'intervento delle potenze europee. Inizia così una corsa frenetica a chi arriva per primo ad Ancona. Una corsa dalla quale, fatalmente, scaturisce uno scontro. Il 18 settembre, a Castelfidardo, piccolo paese marchigiano adagiato su di una collina, le truppe papaline e quelle piemontesi si danno battaglia. La zuffa è aspra e serrata. I volontari pontifici si battono con grande ardimento ma alla fine sono costretti a cedere. George de Pimodan, uno dei comandanti papalini, ferito più volte nel corso dell'assalto, riesce appena a dare l'estremo saluto a La Moriciere: “Generale, i nostri combattono da eroi. L'onore della Chiesa è salvo”. La battaglia ormai è perduta. La Moriciere si avvia con poche centinaia di uomini verso Ancona eludendo l'accerchiamento dei piemontesi. Un'impresa che, però, serve a poco. Il 29 settembre, investita da terra e da mare, la fortezza capitola. Ormai la strada verso Napoli è sgombra.
Ma torniamo a Castelfidardo. Quel tragico 18 settembre del 1860 cadono in parecchi tra papalini e sabaudi. Tra quelli che vengono definiti “i mercenari di Pio IX”, tra quelli che il truce Cialdini chiama “briachi stranieri” e “compri sicari” vi è anche il bretone Paul de Parcevaux che, ferito durante lo scontro, viene ricoverato nella basilica di Loreto, trasformata in ospedale. Il giovane Paul così scrive alla madre: “La mia ferita è grave ma siccome oggi mi sento meglio spero di ristabilirmi. In quanto al resto, mentre stavamo andando in battaglia, pregai Dio perché io potessi fare il mio dovere e morire bene. E ora, data la mia ferita, non temo la morte più di quanto il 18 temessi le fucilate. In Bretagna avrei minore probabilità di morire in condizioni più favorevoli per guadagnare il Cielo. Se muoio, spero di morire contento. Se ci sono grida di dolore nella chiesa che è il nostro ospedale, ci sono anche scoppi di riso. Mi si portano via penna e inchiostro. Addio, spero solo di rivedervi un giorno. Se sarà volontà di Dio di chiamarmi a Lui, il mio ultimo pensiero sarà a voi consacrato”. Paul spirò il 14 ottobre lasciando “lo spirito a Dio, il corpo a Nostra Signora di Loreto, il cuore a sua madre e alla sua nativa Bretagna”.
A lui, come a tutti i suoi valorosi compagni caduti in quella inutile battaglia, bene si addice il pensiero di mons. Dupanloup, vescovo di Orleans: “O colline di Castelfidardo che beveste il loro sangue e raccoglieste le loro ceneri. Ieri il vostro nome era sconosciuto, oggi è immortale”. Nel 1900, in occasione del quarantennale della battaglia, sulla facciata del palazzo comunale di Castelfidardo, viene affissa una lapide marmorea a ricordo dell'evento. E fin qui niente di sconveniente se non fosse che, ancora una volta, torna l'ignobile panzana dei “mercenari soldati pontifici”, una menzogna che servì solo a giustificare una proditoria azione bellica. Nel 1910, per il cinquantenario della battaglia, viene eretto un monumento, opera dello scultore Vito Pardo, per ricordare i caduti di entrambi gli schieramenti. Opera bella ed imponente che è meta continua di visitatori, turisti e curiosi. Ancora una volta, però, lo scopo originario è stato completamente stravolto.
Lassù, dove sono stato di recente, è tutto un tripudio di bandiere tricolori, di retorica patriottarda, di enfasi risorgimentale. Di quei poveri volontari papalini, italiani e stranieri giunti da ogni parte d'Europa per offrire il loro braccio alla causa della Chiesa e del papa, non c'è traccia alcuna. Oggi nessuno ricorda De Pimodan, de Parcevaux e tanti altri che caddero valorosamente sulle amene balze di Castelfidardo per sostenere una causa tanto nobile quanto vana. Così come nessuno ricorda quei soldati del papa che morirono dieci anni più tardi, il 20 settembre del 1870, a Roma nei pressi di Porta Pia. Nel fulgido libro dell'italico Risorgimento non c'è posto per i vinti. Un'altra monumentale ingiustizia, l'ennesima, consumata dalla vulgata storica dominante che qualcuno, prima o poi, dovrà pur peritarsi di cancellare. E quando ciò sarà fatto, se sarà fatto, sarà sempre troppo tardi.
Fernando Riccardi
Fonte: Istituto di ricerca storica delle Due Sicilie