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Home Lezioni di storia Breve storia della Rivoluzione nelle Due Sicilie da Carlo di Borbone a Francesco II

Breve storia della Rivoluzione nelle Due Sicilie da Carlo di Borbone a Francesco II

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BIELLA - Le Due Sicilie tornarono ad essere un Regno indipendente, retto dalla dinastia borbonica, che le liberò dalla condizione di Vice regno,  nel 1734 grazie alla vittoria del giovane Don Carlos, figlio di Re Filippo V di Spagna, sugli austriaci: a parte il breve Viceregno austriaco, le Due Sicilie uscivano da due secoli di Vicereame spagnola il quale non fu un "paradiso in terra , ma di certo lontano da quella immagine di miseria e di degradazione che ci viene comunemente offerta. «Tale giudizio merita di essere attenuato non poco», ha scritto Ruggero Moscati ( I Borboni d’Italia, E.S.I., Napoli 1970, p. 74). Fondamentale per la conoscenza della Napoli spagnola è l’opera di FRANCISCO ELIAS DE TEJADA , Nápoles Hispánico, 5 voll., Montejurra, Madrid e Siviglia 1958-1964.

Il nuovo sovrano [Carlo VII di Napoli e Sicilia per investitura Papale;  però non usò mai tale numerazione ] ebbe un ruolo di primo piano nello sviluppo economico, sociale e anche artistico del Regno ma, irretito dalle idee «illuminate» che si diffondevano in Europa, diede inizio a una politica di accentramento e di secolarizzazione, da un lato provocando il graduale dissolvimento della fitta rete di corpi intermedi posti da secoli a garanzia delle concrete libertà dei singoli , dall’altro favorendo la indebita ingerenza dello Stato nei poteri e nei beni ecclesiastici: fino ad allora «lo Stato, ripartendo il suo imperium in autorità molteplici, proprie a gruppi sufficientemente autonomi, feudali, comunali, corporativi, accademici, ecclesiastici, aveva ben fornito all’individuo possibilità di espressione concreta e diretta» (SILVIO VITALE , Il Principe di Canosa e l’epistola contro Pietro Colletta, Berisio, Napoli 1969, p. 16). L’anima di questa politica fu il ministro Bernardo Tanucci, che si adoperò per l’adozione di provvedimenti quali la limitazione del numero degli ecclesiastici, lo scioglimento e le conversioni: delle manomorte, l’istituzione del matrimonio civile e, successivamente, l’espulsione dei Gesuiti. 

Il figlio di Carlo VII , Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia, proseguì sulla stessa strada, cercando di conciliare, con una politica caratterizzata da misurate trasformazioni, le spinte rivoluzionarie, che venivano dalla borghesia in ascesa e dal mondo della "cultura illuminista" , con il desiderio di non infrangere tradizionali equilibri. I sanguinosi avvenimenti della Rivoluzione francese e la scoperta nel Regno di congiure di stampo massonico-giacobino (la massoneria si era diffusa a Napoli, nonostante la bolla di condanna di Benedetto XIV e la messa al bando da parte di Carlo di Borbone, specialmente tra gli «intellettuali», che con i loro scritti si adoperavano nel minare l’unità spirituale del Regno) gli fecero tuttavia comprendere come quel «riformismo» attentava , di fatto, ai poteri della regalità, mettendone in discussione il fondamento divino, e avessero quale meta finale il ribaltamento delle legittime istituzioni. Il Re fece bruscamente marcia indietro, rinsaldando i vincoli con il Papa e con il clero e invitando i Prìncipi italiani a fare lega contro la Rivoluzione, ormai dilagante in Europa grazie alle baionette dell’esercito francese.  Pochi «illuminati» la accolsero con entusiasmo a Napoli e in Italia, rendendosi presto conto di essere una sparuta minoranza, avulsa dalla realtà della Penisola , mentre il popolo reagiva vigorosamente contro l’aggressione militare e ideologica.

I «lazzari» napoletani e i contadini delle province si rivelarono ben lungi dall’essere una massa amorfa, avvezza a passare con facile rassegnazione da "un padrone all’altro", e le loro gesta andarono a costituire la splendida epopea della Santa Fede, «che ebbe nell’eroico cardinale Fabrizio Ruffo il suo condottiero e in Sant’Alfonso Maria de’ Liguori il suo preparatore remoto ma profondo, nello stesso senso in cui san Luigi Maria Grignion de Montfort preparò la Vandea» .  I Borbone restaurati non seppero corrispondere con altrettanta generosità all’attaccamento mostrato dalla popolazione e proseguirono nella loro politica assolutistica (centralista) , giungendo allo scioglimento delle ultime rappresentanze cittadine, i Sedili e la Piazza del Popolo :  l’atto «più rivoluzionario compiuto dal dispotismo illuminato borbonico», nel giudizio di WALTER MATURI , Il Principe di Canosa, Le Monnier, Firenze 1944, p. 317. 

La scontentezza fu generale, ma quando i francesi tornano, nel 1806, la opposizione armata rimase viva nelle province, assumendo i caratteri della guerriglia; tale valoroso comportamento sarà però bollato come «brigantaggio» da una mendace storiografia.  Restaurato nuovamente nel 1815, Ferdinando IV — divenuto Ferdinando I delle Due Sicilie — perse l’occasione per operare una efficace e completa restaurazione, accontentandosi di quella politica di «conciliazione», cioè di compromesso con i vecchi rivoluzionari, favorita in Europa dal Principe di Metternich. A nulla valsero gli accorti giudizi e le lungimiranti indicazioni del Principe di Canosa, il quale tentò invano di mettere in guardia il Sovrano contro l’operato delle forze sovversive, che continuavano a cospirare nell’ombra; per ben due volte, infatti, egli venne sacrificato sull’altare del cedimento e del compromesso  . Né ebbero fortuna i suoi tentativi d’influenzare la politica del Regno con Ferdinando II, salito al trono nel 1830, dopo il breve governo del padre Francesco I (1825-1830): «Fu sì la fallace politica dei Borboni [...] : quel sempre accarezzare i nemici e sconoscere gli amici. E dico fallace, perché se talvolta guadagni qualche settario, mai non guadagni la setta; questa infatti per governativi favori s’era ingrossata di nascosto: e venuto il tempo, nessuno dei fedeli si mosse, e il campo restò libero ai tristi» , scrive Giacinto De Sivo in   "Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861" , Berisio, Napoli 1964, vol. II, p. 171. 

II giovane Re aspirava  a ricostituire un tessuto sociale profondamente lacerato e a ravvicinare le antiche classi politiche tra loro, ma non nutriva alcuna fiducia in una classe dirigente ideologicamente preparata e in un popolo messo in guardia dalla penetrazione settaria.  Se nel 1848 egli fu in grado di domare con le sole sue forze la Rivoluzione scoppiata in Europa secondo un piano preordinato (Congresso massonico di Strasburgo del 1847) , successivamente non saprà  difendersi dalla propaganda delle sette, che lentamente inquinava la corte e la Nazione.  Il centralismo, inoltre, assunse con lui forme patologiche, provocando l’isterilimento della classe dirigente napoletana, l’invecchiamento dei quadri della burocrazia e dell’esercito, la fine di ogni spirito di iniziativa, con conseguenze che si avvertiranno nella loro gravità solo in seguito: «Nel Regno molto si fece per restaurare le cose, poco per le idee [...] . Ferdinando credé bastargli il fatto; poco lavorò alla vittoria della reazione morale, quella che non con arme di ferro ma con la face della verità si consegue [...] . Pago d’aver vinto, godente incontrastata potestà, plaudito da’ sudditi, suppose quello stato non poter mancare, non pensò all’avvenire [...] . Temuti gli uomini di testa, s’andò cercando la mediocrità perché più mogia; non si volle e non si seppe cercare i migliori e porli ai primi seggi [...] ; e per non fidarsi in nessuno, e non aver bisogno d’intelletti, fu ridotta a macchina l’amministrazione e il governo [...] . La nave dello Stato non provveduta di piloti andò in tempo di calma più anni barcollando; poi al primo buffo, non trovandosi mano esperta al timone, senza guida affondò» (ibid., vol. I, p. 375). 

La Rivoluzione, infatti, dopo alcuni anni di tregua, necessari per riordinare le fila e porsi sotto la protezione della scimmiottatura monarchica in Francia  (II Impero) e nel Regno sardo,  ricominciò l’opera forzatamente interrotta nel 1849, prendendo di mira soprattutto lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Il massonico Congresso di Parigi, che dissolse definitivamente il fronte della Santa Alleanza  , e l’attentato contro Ferdinando II nel dicembre 1856  , furono gli atti principali di uno scenario accuratamente preparato: «II sacrilego paradosso di un esercito cristiano — scrive un autore filoborbonico — che, alleatosi al Turco infedele, marciava contro un altro esercito cristiano per sostenere la causa dell’imperialismo islamico, divenne imprevedibilmente la più scandalosa e disilludente delle realtà per quel Re devotissimo [...] ; ed allora, di certo, l’erede del Regno cattolico di Ruggero il Normanno e del Regno crociato di Gerusalemme dovette avvertire, bruciante ma chiara, la sensazione dell’imminente definitivo tramonto di quell’ideale ecumenismo teocratico, romano e cristiano, di cui il suo trono rimaneva ancora ultimo e indifendibile baluardo nel mondo» (R OBERTO MASCIA , Ferdinando II e la crisi socio-economica della Calabria nel 1848, Regina, Napoli 1973, pp. 130-131). 

Nel 1859, Ferdinando II  morì lasciando al figlio primogenito Francesco II un Regno pullulante di vecchi e nuovi settari, pericolosamente esposto all’azione rivoluzionaria: l'attentato del 1856 a Ferdinando II fu l’atto terminale di una cospirazione ispirata dal murattismo, movimento che aveva come scopo quello di portare sul trono di Napoli Luciano Murat, cugino di Napoleone III e Gran Maestro del Grande Oriente di Francia (cfr. MICHELANGELO MENDELLA , Agesilao Milano e la cospirazione antiborbonica del 1856, in Rassegna storica del Risorgimento, 1974, fasc. I - II). «Col Murat — osserva Giuseppe Montanelli, oppositore borbonico — verrebbe un Re Grand’Oriente dei framassoni e una regina protestante: rivoluzione di costumi da non disprezzare nella metropoli della superstizione italiana» (G. LA FARINA , Epistolario, Treves, Milano, vol. I, p. 565).  

L’aggressione franco-sarda all’Impero asburgico, meticolosamente pianificata da Cavour, portò, in quello stesso anno [1859], all’assorbimento, nel Regno sardo, degli antiche Stati di Parma, Modena e Toscana , nonché all’annessione della Lombardia austriaca e delle Romagne pontificie.  Umiliata l’Austria, guadagnate alla propria causa la Francia e l’Inghilterra, la setta si sentì abbastanza forte per agire contro quel Reame e quella Monarchia che avevano saputo fiaccarne le forze nel 1848. 

Giuseppe Garibaldi, l’ex avventuriero ora Generale dell’esercito sardo, la cui fama era stata accuratamente fabbricata nel corso degli anni  , il repubblicano convertitosi alla necessità di una guerra regia  , apparve come l’uomo adatto per guidare una spedizione che offrisse al Regno sardo l’occasione e l’alibi per intervenire nelle Due Sicilie.  La Sicilia, per certi aspetti considerabile il punto debole del Regno , venne scelta come obiettivo della progettata spedizione. Alle secolari velleità autonomistiche dell’isola, infatti, si aggiunsero l’orientamento liberaleggiante dell’aristocrazia, che ne aveva attenuato la fedeltà verso la Monarchia, e la endemica turbolenza dei contadini i quali,  influenzati da questo atteggiamento e interessati alla risoluzione del problema delle terre, respingevano in parte le sollecitazioni religiose e legittimistiche cui si mostravano invece sensibili i ceti rurali delle altre zone della Penisola: non erano estranei a questa particolare situazione «gli scandalosi intrighi degli inglesi, che fomentavano [...] i disordini ed il malcontento [...] per promuovervi un’esplosione, come quella del 1848, tendente alla separazione dell’isola dal Reame di Napoli, nel che riuscendo manovrerebbero in modo da farla cadere sotto il protettorato o almeno sotto l’esclusiva loro influenza» (lettera di G. Filangieri a Francesco II, dell’1 ottobre 1859, in RUGGERO MOSCATI , La fine del Regno di Napoli, Napoli 1960, p. 121). 

I preparativi dell’operazione militare sovversiva erano a cura della Società Nazionale, emanazione del governo sardo, costituita anni addietro per il coordinamento di azioni di tale genere. Essa mise a disposizione armi e denaro, facilitando anche il reclutamento dei "volontari"; gli arsenali Ansaldo fornirono le munizioni; Nino Bixio si accordò con la società Rubattino per il noleggio di due bastimenti; Rosolino Pilo partì alla volta della Sicilia per aprire la strada alle orde garibaldine.  La flotta sarda, guidata dall’ammiraglio Persano ( dalla lettura del diario dell’ammiraglio (CARLO PELLION DI PERSANO Diario privato, politico, militare, Torino 1889) traspare, nonostante il riserbo dell’autore, l’eventualità di un intervento attivo della sua squadra nella campagna di Sicilia in caso di pericolo per i garibaldini.) , protesse con discrezione il viaggio dei "volontari", così come farà con le successive spedizioni, che nei tre mesi seguenti portano in Sicilia circa ventiduemila uomini, in buona parte soldati dell’esercito sardo congedati apposta o fatti disertare:  questi ultimi vennero naturalmente amnistiati da Vittorio Emanuele II il 29 settembre di quell’anno. «Più che dai contingenti isolani — ammette Garibaldi — i Mille furono aumentati da varie spedizioni posteriori, partite dal continente» (G. GARIBALDI , I Mille, Camilla e Bertolero, Torino 1874, p. 107). I viaggi erano spesso compiuti sotto la bandiera americana, procurata con abili trucchi legali. Ciò rese assai difficili le intercettazioni sotto il profilo del diritto internazionale, che il Regno delle Due Sicilie continuava a rispettare. 

Lo stesso sbarco dei Mille  a Marsala, l’11 maggio 1860, venne facilitato dalla presenza nel porto di navi da guerra britanniche, il cui comandante, ammiraglio Mundy, ingiunse alle unità napoletane prontamente accorse di non aprire il fuoco fino all’avvenuto reimbarco dei suoi marinai, provocando un irreparabile ritardo nella entrata in azione della Regia marina: «La presenza dei due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro; [...] io fui per la centesima volta il loro protetto» (G. GARIBALDI , Memorie, Rizzoli, Milano 1982, pp. 252-253). 
Appena sbarcato, Garibaldi assunse la dittatura dell’isola «in nome di Vittorio Emanuele II», e marciò verso l’interno, protetto dalla generale «omertà», in quel caso celebrata e glorificata come virtù.  

A Calatafimi si verificò il primo scontro, che fornì il «modello» alle successive battaglie: i soldati Regi si batterono con valore e destrezza contro il nemico , ma i loro capi corrotti , la cui carriera si doveva all’anzianità più che al merito, privi di reale esperienza bellica e troppo vecchi per quel compito, li tradirono. «La vittoria di Calatafimi, benché di poca importanza per ciò che riguarda gli acquisti, avendo noi conquistato un cannone, pochi fucili e pochi prigionieri — scrive Garibaldi — fu d’un risultato immenso per l’effetto morale, incoraggiando le popolazioni e demoralizzando l’esercito nemico». 

«Sua Eccellenza» Garibaldi, prima che le proprie posizioni fossero seriamente intaccate; e quando il maggiore Bosco e il colonnello svizzero von Mechel, due valorosi ufficiali, precedentemente tratti in inganno dalla nota «diversione di Corleone», piombarono sul capoluogo seminando il panico tra le sgomente schiere garibaldesche , egli non esitò a fermarli in nome di un armistizio non concluso, facendo perdere così l’occasione di schiacciare gl’invasori. 
La resa di Palermo, frutto del tradimento,  seguita logicamente a quell’episodio, destò stupore e sensazione nel mondo intero, e generò un ondata di sfiducia che si aggiunse al tradimento, accrescendo la fama d’invincibilità di cui godeva Garibaldi, disarmò la volontà di resistenza della sgomenta corte napoletana.  Anche a Milazzo, il 20 luglio, l’impetuoso e coraggioso beneventano Del Bosco si trovò davanti a superiori troppo remissivi, nel caso concreto il generale Clary, che preferì non muoversi dalla sicura posizione di Messina; Bosco, divenuto  colonnello, impegnò severamente il nemico  , ma dovette poi ripiegare, cannoneggiato per giunta da una nave Napoletana passata nel campo avverso  . La Sicilia era persa; ne venne concordata la evacuazione, salvo alcuni forti, uno dei quali, la cittadella di Messina, il quale resisterà per quasi otto mesi. 

II 17 giugno [1860], in omaggio al carattere rivoluzionario della sua impresa, Garibaldi emanò i primi decreti contro gli ordini religiosi, disponendo in particolare l’incameramento dei beni dei Gesuiti e dei Redentoristi, considerati «gagliardi sostegni del dispotismo, durante lo sventurato periodo della borbonica occupazione»  e, quindi, la loro espulsione: Giacinto De Sivo si meravigliò non poco nel sentire parlare di «occupazione» a proposito di un Regno durato ben 126 anni. 
Alle perquisizioni, ai maltrattamenti, alle carcerazioni nei confronti degli ecclesiastici che non plaudevano ai «liberatori», seguì una massiccia diffusione della corruzione e dell’empietà: « I Garibaldeschi versavano a piene mani la miscredenza e la depravazione nel popolo. Giornalucci da un soldo movean le passioni, schizzavano idee sovversive, celebravano l’anarchia e la scostumatezza [...] . Vedevi preti in grottesco, papi e cardinali, re e regine in isconci atti, i misteri, i dogmi, significati con emblemi oltraggiosi [...]. Stillavano veleno nei cuori, sofismi nei pensieri, voluttà nei sensi; ma l’appellavano rigenerazione» (G. De Sivo) .  Il 10 agosto [1860] viene ricostituito il Grande Oriente di Palermo e Garibaldi, iniziato alla massoneria sin dal 1844, venne elevato a «maestro»; meno di due anni dopo sarà eletto alla guida del Supremo Consiglio scozzesista palermitano . 

Quanto alla questione demaniale, il dittatore ordinò la distribuzione delle terre ai contadini, particolarmente a chi aveva appoggiato la sua impresa  .  Il provvedimento ebbe carattere esclusivamente tattico, avendo egli bisogno dell’aiuto della popolazione; quando la questione sociale si sovrappose a quella politica e i contadini cominciarono ad attaccare la borghesia agraria nei suoi organismi di potere locali, le municipalità, i garibaldini dovettero reprimere quei moti, perché la loro rivoluzione era politica e non contempla rivolgimenti d’altro genere: il problema dei demani si trascinava dal 1806, quando Giuseppe Bonaparte aveva emanato le leggi eversive della feudalità, sottraendo ingenti quantità di terre a quegli usi civici che da tempo immemorabile soddisfacevano ai bisogni delle popolazioni rurali. Con il passare degli anni, la piccola borghesia agraria, detentrice delle cariche comunali, si era impadronita delle terre indivise, frammentandole e usurpandone la proprietà. Ferdinando II, che aveva cercato di reintegrare quei terreni nei demani statali, ottenne unicamente di fare passare alla opposizione un rilevante gruppo di famiglie della borghesia terriera, soprattutto in Calabria. Per un approfondimento, cfr. R. MASCIA , op. cit. 

L’assenza nell’isola di un «partito» borbonico che potesse sfruttare la delusione dei siciliani e organizzare a fini positivi la loro reazione, fece sì che essi piombassero presto in una cupa rassegnazione, con un fondo di ostilità che si tradusse nel fallimento della coscrizione obbligatoria introdotta da Garibaldi.  Ciò tuttavia avvenne quando l’isola era stata praticamente conquistata e non causò eccessive preoccupazioni al dittatore.  Con la caduta di Palermo cominciò a profilarsi il crollo della Monarchia Napoletana ; gli stessi cortigiani del Re, ritenuti fino ad allora i più fedeli all’Ancien Régime, chiesero una costituzione, nell’illusione che essa fosse rimedio a mali maggiori. Francesco II, pressato dagli «inviti» di Napoleone III in tale senso, cedette con riluttanza e richiamò in vigore, con l’Atto Sovrano del 25 giugno, lo statuto del 1848, sospeso e mai abrogato, facendolo seguire dalla concessione di un’amnistia per tutti i reati politici: la grande maggioranza dei sudditi rimase stupefatta, se non sbigottita, dalla concessione della costituzione. Il Cardinale Sisto Riario Sforza, Arcivescovo di Napoli, si faceva portavoce della loro inquietudine, denunciando al Re i gravi pericoli derivanti dalla libertà di stampa e dall’istituzione della Guardia Nazionale, composta da elementi liberali. L’esercito, da parte sua, non gradì la sostituzione della bandiera gigliata con il tricolore rivoluzionario e provocherà diverse rivolte (cfr. CAMILLO BENSO Conte di CAVOUR , La liberazione del Mezzogiorno, Bologna 1949, vol. I, p. 410). A Gaeta, la guarnigione si rifiutava di applaudire lo statuto. A Napoli, reparti della Guardia Reale assalivano i posti della Guardia Nazionale per obbligare i militi a gridare: « Viva il Re! Abbasso la Costituzione!» (ibid. vol. I, p. 357). 

Aprire le finestre a correnti d’aria rivoluzionarie mentre la Sicilia era in fiamme, richiamare gli oppositori dall’esilio, permettere la costituzione di una Guardia Nazionale in antitesi alla polizia e all’esercito, significava affrettare lo sfacelo. Confinati per tanti anni in un ruolo passivo, gli uomini della vecchia generazione non trovarono stimoli per fronteggiare gli avvenimenti: i diplomatici, privi di una precisa direttiva, si agitavano confusamente; gli alti ufficiali si scaricavano vicendevolmente le responsabilità; i funzionari si trinceravano dietro la scossa data all’impalcatura statale dall’Atto Sovrano di giugno per giustificare la loro inettitudine; il ministero costituzionale non poté fare altro che sfaldare l’antico regime, senza sostituire a esso qualcosa di più efficiente.  I vecchi borbonici, ormai indifesi ed esposti alla vendetta degli avversari, cominciarono a lasciare il Paese.

A Napoli, una parvenza di ordine venne instaurata dal nuovo ministro di polizia, il traditore Liborio Romano ( Massone d’alto grado secondo il Bollettino del Grande Oriente del 1867) , che reclutò i suoi uomini tra i camorristi, assegnando ai loro capi, appena usciti di galera, i posti-chiave nell’amministrazione cittadina.  Tale compromesso con i magnati della corruzione procurò a Romano una popolarità ignota ai suoi predecessori, ma consegnò la città ai delinquenti, favorendo il dilagare dell’anarchia, delle vendette private, delle estorsioni, del contrabbando, del lotto clandestino  .  L’adesione di quei «guappi» alla causa rivoluzionaria, sia pure per motivi di convenienza, favorì la saldatura tra l’elemento liberale e quello popolare, privando la Monarchia del suo tradizionale punto d’appoggio, il popolino della capitale. 
Ai primi di agosto, il Regno delle Due Sicilie appariva perduto.  La diplomazia europea, corrotta o timorosa, non mosse un dito in sua difesa; comitati insurrezionali si formarono nelle province continentali; il panico invase coloro che apparivano maggiormente legati alla Monarchia.  
Di fronte a questa situazione, Cavour autorizzò Garibaldi a marciare su Napoli, diffidandolo però dal proseguire su Roma, per evitare complicazioni diplomatiche che potevano compromettere la sua delicata opera  .  Il 19 agosto [1860], l’esercito garibaldino, che raccoglieva decine di migliaia di «volontari», sbarcò in Calabria, favorito dalla quasi totale inattività della marina napoletana  .  I «galantuomini» e i ricchi proprietari terrieri, di fronte alla impotenza o alla corruzione  delle autorità borboniche, armarono i propri uomini e diedero il via all’insurrezione, spianando la strada all’armata garibaldina, nella prospettiva della conservazione o dell’accrescimento della loro vantaggiosa posizione: «Circostanza ben favorevole alla causa nazionale fu il tacito consenso della marina militare borbonica, che avrebbe potuto, se intieramente ostile, ritardare molto il nostro progresso verso la capitale. E veramente i nostri piroscafi trasportavano i corpi dell’esercito meridionale lungo tutto il litorale napoletano, senza ostacoli» (G. GARIBALDI , Memorie, cit., pp. 283-284). Dopo l’allontanamento da Napoli, per aperti sentimenti liberali, del comandante generale della Real Marina Luigi di Borbone, Conte de L’Aquila, il 14 agosto [1860], la marina borbonica, già minata dal contrasto tra ufficiali ed equipaggi, entra in piena disgregazione. I primi assistono al precipitare degli eventi senza prendervi parte, mentre la bassa forza, legata alla Monarchia, esprime la propria disapprovazione per tale comportamento, tumultuando più volte apertamente (cfr. L. RADOGNA , op. cit., pp. 158-159). 
Al favore di quella classe, all’inerzia dei dirigenti, al disfacimento dell’apparato statale, si aggiunse in alcune zone, nei ceti contadini, la diffusa aspettativa, manifestamente infondata, di un rivolgimento sociale. 

Gli ufficiali borbonici corrotti a suon di ducati e future promozioni capitolarono senza opporre resistenza. I soldati, dispersi dalla viltà dei comandanti  , rifiutarono di aderire alla causa garibaldina e, sbandati o a gruppi, marciarono prima su Napoli e poi su Gaeta, per rispondere all’appello del Re.  Francesco II aveva inizialmente maturato l’idea di porsi alla testa dell’esercito e affrontare gl’invasori in una battaglia decisiva nella piana del Sele. Successivamente, su pressione dei suoi infidi consiglieri, si rassegnò ad abbandonare la capitale, per evitare a essa gli orrori della guerra, e a ritirarsi oltre il Volturno, dove le popolazioni gli erano ostinatamente fedeli e dove poté appoggiarsi alle piazzeforti di Capua e di Gaeta, con le spalle protette dalla frontiera pontificia.  

Il 6 settembre [1860], mentre le truppe erano già in movimento, il Re rivolse un proclama di commiato «al popolo di questa Metropoli, da cui debbo ora allontanarmi con dolore»; in esso, dopo avere ricordato che «fra i doveri prescritti ai Re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandiosi e solenni», e che egli intendeva «compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti Monarchi», denunciò la «guerra ingiusta e contro la ragione delle genti» che aveva invaso i suoi Stati, «nonostante che io fossi in pace con tutte le potenze europee»; protestò contro quelle «inqualificabili ostilità, sulle quali pronunzierà il suo severo giudizio l’età presente e la futura», ed annunciò la sua partenza per recarsi «là dove la difesa dei miei diritti mi chiama [...] . Discendente da una Dinastia che per 126 anni regnò in queste contrade continentali [...] i miei affetti sono qui. Io sono Napoletano — ribadisce polemicamente — né potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissimi popoli, ai miei compatrioti [...]. Quello che imploro da ora è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici».

La sera di quello stesso giorno, il Sovrano, la Regina Maria Sofia e il loro seguito si imbarcarono per Gaeta  , mentre a Salerno Garibaldi riceveva l’invito, rivoltogli da Liborio Romano, a fare il suo ingresso nella capitale.  La presenza in città di seimila soldati bene armati non causò imbarazzo al nemico, perché i castelli e le fortificazioni vennero ceduti senza combattere; anche in questo caso le truppe, lasciate libere, vollero raggiungere il Re sul Volturno: «Al tramonto — scrive l’Ammiraglio Mundy, presente alla scena — le truppe reali lasciarono la città e si misero in marcia verso Capua. Fu data loro ogni opportunità per disertare i ranghi e passare nelle file della rivoluzione, ma pochi se ne avvalsero. C’era un’ostinata e sprezzante determinazione negli sguardi e nel contegno di quegli uomini che non costituiva certo prova di simpatia per la causa del Dittatore Garibaldi» (GEORGE RODNEY MUNDY , La fine delle Due Sicilie e la Marina britannica, Berisio, Napoli 1966, p. 201).
Il 7 settembre [1860], Giuseppe Garibaldi entrò in Napoli, dove «don» Liborio aveva mobilitato i suoi uomini, cioè i capicamorra, per rendere «oceanica» l’adunata di popolo alla stazione e lungo il tragitto  . Il dittatore, diplomaticamente e falsamente , andò a rendere omaggio alle reliquie di San Gennaro  ; rifiutandosi i sacerdoti di dire Messa, fu il garibaldino eretico fra’ Pantaleo a celebrare nel duomo un Te Deum non molto ortodosso, concludendo con uno sconclusionato discorso sul ruolo del «novello Cristo», cioè di Garibaldi: Anni dopo il nizzardo , libero di esprimersi con minore tatto, definirà «umiliante composizione chimica» quello che «gli impostori vi spacciano come sangue di San Gennaro», e inviterà a «frangere per sempre quell’ampolla contenente il veleno!» (G. GARIBALDI , Messaggio all’anticoncilio di Napoli, dell’11 ottobre 1896, in IDEM , Memorie, cit., p. 368). 
Garibaldi prese alloggio a palazzo d’Angri, da dove emanò i primi decreti, che sanciscono l’annessione della flotta napoletana a quella sarda e la confisca dei beni della famiglia reale: Francesco II aveva portato con sé solo una esigua parte delle sue proprietà: la ricca collezione di vasellame, i quadri e i mobili rimasero a Napoli, né verranno ritirati gli undici milioni di ducati depositati nelle banche (cfr. HAROLD ACTON , Gli ultimi Borboni di Napoli, Martello, Milano 1973, p. 556). 
L’11 settembre [1860] venne abolito l’ordine dei Gesuiti, le cui proprietà mobiliari e immobiliari divennero beni nazionali; con decreto avente efficacia retroattiva si annullarono tutti i contratti da essi stipulati dopo lo sbarco di Marsala: il 24 ottobre [1860], il generale della Compagnia, Beckx, che in un anno aveva assistito alla chiusura di 54 case e collegi nella Penisola, scriverà a Vittorio Emanuele II, lamentando che « i membri della medesima [Compagnia di Gesù], in numero di un migliaio e mezzo circa, furono scacciati dalle case e dalla città, furono tradotti come malfattori a mano armata di paese in paese, detenuti nelle pubbliche carceri, maltrattati ed oltraggiati atrocemente», senza «riguardo alla canizie degli anni, allo stremo dell’infermità e dell’impotenza. Tutti questi atti si sono consumati senza apporre a coloro che ne furono vittima, nessun atto colpevole innanzi alla legge, senza alcuna forma di giudizio, senza lasciar modo di giustificarsi; insomma si è proceduto dispoticamente alla maniera selvaggia» (P. BALAN , op. cit., vol. II, pp. 289-290).


Dieci giorni dopo vennero nazionalizzati i beni delle mense episcopali, lasciando duemila ducati a ciascun Vescovo; parte delle sostanze confiscate venne distribuita tra il basso clero, per tentarlo alla causa rivoluzionaria.  Sei milioni di ducati, appartenenti alla Casa Reale, furono stanziati in favore di «patrioti» danneggiati dalla politica borbonica; una pensione di 30 ducati mensili e una dote di 3 mila ducati furono assegnate rispettivamente alla madre e a ciascuna delle sorelle di Agesilao Milano, vittima del «tiranno»  ; il lussuoso palazzo del Chiatamone venne concesso al romanziere martinista Alessandro Dumas, nominato «direttore degli scavi e dei musei»  .  Il 23 settembre, un ennesimo decreto, che comminava dure pene a quegli ecclesiastici che avessero manifestato anche a parole l’avversione verso il nuovo regime, diede inizio alla persecuzione del clero. Numerosi Vescovi furono incarcerati, altri esiliati; tutti dovettero subire spoliazioni, perquisizioni, insulti. Il Cardinale Sforza, che aveva rifiutato di piegarsi alle imposizioni degli occupanti, venne esiliato a Marsiglia.  I decreti del 18, 22 e 23 ottobre [1860] sancirono l’abolizione dei privilegi e delle immunità a favore degli ecclesiastici, e sottrassero al clero l’amministrazione dei luoghi pii laicali e degli stabilimenti di beneficenza.  I protestanti inglesi, tenaci protettori di Garibaldi, ottennero il permesso e la concessione gratuita del suolo per la costruzione di una cappella pubblica, mentre il dittatore, nella sua smania di favorire i non cattolici, si rese ridicolo, decretando il libero culto per i greco-albanesi, i quali, in quanto cattolici, non abbisognavano di alcun permesso.



La proclamata libertà di coscienza, la diffusione di giornali empi e osceni, le «prediche» dei «frati» garibaldini  non riscossero il consenso dell’opinione pubblica napoletana e il popolo si guadagnerà la fama di immaturo, ignorante e avverso alla libertà a causa della «barbarie» nella quale era stato per lungo tempo immerso. Da quel giorno, compito dei «liberatori» fu quello di «incivilirlo», ed essi non risparmiarono illegalità ed efferatezze a questo scopo.  La popolazione, allora, corse alle armi, in difesa delle proprie tradizioni, del legittimo Re e della religione, dando inizio a una lotta senza quartiere, ennesimo esempio della duratura avversione dei popoli d'Italia alla Rivoluzione, anche quando questa si presenta ammantata da una luce libertaria e nazionalistica.  Quasi ovunque i contadini, armati di falci e di marre , rialzavano i gigli abbattuti, bruciavano i ritratti di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II , inneggiavano a Francesco II. Questi moti, inizialmente circoscritti e privi di collegamento, ebbero uno spiccato indirizzo legittimistico e antiunitario, e se ne iniziò presto il coordinamento da parte del governo borbonico.


Il 15 settembre [1860], i gendarmi, i soldati sbandati, le bande di pastori e di contadini vennero inquadrati in una brigata di volontari, al comando del Barone tedesco Teodoro Klitsche de La Grange, nominato colonnello il giorno prima, affiancata da reparti regolari del generale Scotti Douglas .  Le due colonne penetrarono nella Marsica e nel Molise, appoggiando la sollevazione popolare verso Rieti e minacciando L’Aquila. Una colonna borbonica raggiunse Isernia, importante nodo stradale, in appoggio al «movimento fatto da quella popolazione per rimettere il legale e legittimo governo»  . Un battaglione di «volontari» guidato dal Governatore di Campobasso, che aveva rioccupato Isernia, venne costretto a ritirarsi di fronte ai regolari fiancheggiati da migliaia di contadini armati. Una colonna garibaldina agli ordini di Francesco Nullo tentò la riconquista della città, ma venne  annientata da reparti borbonici affiancati da grandi masse d’insorti  .  Nelle settimane successive si susseguirono rivolte e repressioni, in una spietata guerra che insanguinerà per anni le Due Sicilie . 
La reazione popolare non poteva , purtroppo, averla vinta sulle forze della Rivoluzione, incarnata in quel frangente dalle divisioni dell’esercito sardo.  Era giunto il momento di portare a compimento l’opera da lungo tempo progettata e avviata. L’11 settembre [1860], dopo la presentazione di una lettera- ultimatum di Cavour al Cardinale Antonelli, con la quale si ingiungeva lo scioglimento delle truppe «mercenarie», i soldati sardi invasero i territori pontifici « in nome dei diritti dell’umanità». 
Le ardite ed eterogenee unità papaline del generale Lamoricière, costituite da migliaia di giovani accorsi dall’Europa cattolica in difesa del Papa, vennero sopraffatte a Castelfidardo dalle preponderanti forze del generale macellaio  Cialdini .  Ancona capitolò il giorno 29, dopo un violento bombardamento navale, proseguito anche dopo la resa:  Cialdini si era presentato con il seguente proclama: « Vi conduco contro una masnada di briachi [ubriachi] stranieri, che sete di oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi. Combattenti, disperdete inesorabilmente quei compri sicari, e per vostra mano sentano l’ira di un popolo che vuole la sua nazionalità e la sua indipendenza» (P. G. JAEGER , op. cit., p. 102). « I pontifìci — dipinti così cupamente — opposero una resistenza che non si credeva [...] . Parecchi di quei crociati, di nobili famiglie legittimiste, seppero combattere e morire con coraggio» (R AFFAELE DE CESARE , Roma e lo Stato del Papa, dal ritorno di Pio IX al XX settembre, Forzani e C., Roma 1907, vol. II, pp. 74-85). 



Nell’allocuzione concistoriale del 28 settembre [1860], il Pontefice denunciò i «nuovi e finora inauditi ardimenti commessi dal Governo Subalpino contro di Noi e contro l’Apostolica Sede e la Chiesa Cattolica» ; difese il proprio diritto di arruolare «tutti quei Cattolici che mossi da zelo di religione abbiano volontà di militare nelle Truppe Pontificie e di concorrere alla difesa della Chiesa [...] senza emolumento veruno» ; pianse «quanti valorosi militi, ed in particolare giovani sceltissimi, son caduti estinti in questa invasione ingiusta e crudele», e condanno «coloro che intimando già da gran tempo fierissima guerra alla Chiesa Cattolica, ed ai Ministri, ed alle cose che le appartengono, e disprezzando leggi ecclesiastiche e Censure, osarono gettare in carcere e ragguardevolissimi Cardinali di Santa Romana Chiesa, e Vescovi, e specchiatissimi personaggi dell’uno e dell’altro Clero, e cacciare dai propri Cenobi Religiose famiglie, rapinare i beni della Chiesa, e devastare il principato civile di questa santa Sede [...]. Costoro [...] fondano pubbliche scuole di qualunque falsa dottrina, ed anche case meretrici, e [...] per mezzo di scritti abbominevoli, e teatrali spettacoli si sforzano di offendere ed eliminare il pudore, la pudicizia, l’onestà, la virtù, e di schernire e vilipendere i sacrosanti misteri, i precetti, i riti, le cerimonie della nostra divina Religione, di togliere di mezzo ogni ragione di giustizia, e di scrollare e distruggere i fondamenti sì della Religione che della società civile!» .

L’appello di Pio IX alle potenze europee non ebbe seguito e, mentre i montanari imbracciavano il fucile contro i nemici della Chiesa, questi, il 12 ottobre, invadevano il Regno delle Due Sicilie, giustificando l’aggressione con fragilissimi argomenti giuridici, imperniati sulla tesi di un’abdicazione «di fatto» (che non ci fu) di Francesco II, conseguente all’abbandono della capitale. Attaccato alle spalle e stretto tra due eserciti, il Re dovette ritirarsi su Capua e poi su Gaeta, dopo avere tentato di forzare le linee garibaldine sul Volturno.  Il 21 ottobre [1860], si tenne a Napoli e nel Regno il plebiscito farsa per l’annessione al Regno sardo. L’unanimità dei consensi fu assicurata dai brogli  del voto e dall’incubo delle mazze dei camorristi .  Garibaldini e «galantuomini» si divertirono, andando a votare più volte ; «in compenso» buona parte della popolazione non si recò alle urne e la reazione prense vigore in tutto il Regno: le modalità del voto scandalizzeranno gli osservatori stranieri: «Temo che chi avesse voluto dichiararsi apertamente ostile alla sacra parola d’ordine "Italia Una", avrebbe avuto bisogno di molto coraggio morale», osservava l’Ammiraglio Mundy. «Secondo me, un plebiscito a suffragio universale regolato da tali formalità non può essere ritenuto veridica manifestazione dei reali sentimenti d’un Paese» (G. R. MUNDY , op. cit., p. 217). « I risultati delle votazioni in Sicilia e Napoli — scriveva l’Ambasciatore inglese Elliot — rappresentano appena i diciannove tra cento votanti designati; e ciò ad onta di tutti gli artifizi e violenze usate» (G. CUCENTRENTOLI , op. cit., p. 37). «Le urne — commentava Luciano Murat — stavano tra la corruzione e la violenza» (P.G. JAEGER , op. cit., p. 156). L’ufficiale garibaldino Rüstow ha scritto che nel suo reparto di Caserta si ebbero 167 voti su 51 aventi diritto (G. RÜSTOW , La guerra d’Italia del 1860 descritta politicamente e militarmente, Ve- nezia 1861, vol. II, p. 114).

Il giorno 26, Garibaldi «cedette» le Due Sicilie a Vittorio Emanuele II e si ritirò a Caprera, pago di avere compiuto nel "migliore dei modi" la sua parte nella Rivoluzione italiana. 
Con l’arrivo dell’esercito sardo a Napoli la spoliazione economica si aggiunse alla persecuzione religiosa e politica.  L’enorme prelievo di beni statali e religiosi, e l’incameramento di circa 80 milioni di ducati provenienti dalle finanze dello Stato, contribuirono alle ingenti spese sostenute dal Regno sardo per le sue guerre, mentre oltre la metà del debito pubblico del Paese venne caricata sulle popolazioni delle Due Sicilie. 
L’introduzione della tariffa doganale sarda tolse ogni protezione alle industrie Napoletane , che persero anche l’ausilio degli appalti statali, assegnati ora nella lontana Torino.
Francesco II, da Gaeta dov’era assediato, l’8 dicembre 1860, in occasione della festa della Immacolata Concezione, indirizzò un nobile proclama ai suoi sudditi «in preda a tutti i mali della dominazione straniera, [...] portanti il loro sangue e le loro sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede di straniero padrone». «Erede di un’antica dinastia che ha regnato in queste belle contrade per lunghi anni ricostituendone l’indipendenza e l’autonomia, non vengo dopo avere spogliato del loro patrimonio gli orfani, dei suoi beni la Chiesa ad impadronirmi con forza straniera della più deliziosa parte d’Italia [...] . Vedete lo stato che presenta il paese. Le Finanze un tempo così floride sono completamente rovinate; l’Amministrazione è un caos; la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni son piene di sospetti: invece della libertà lo stato d’assedio regna nelle province, ed un Generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli dei miei sudditi, che non s’inchinano alla bandiera di Sardegna. L’assassinio è ricompensato; il regicidio merita un’apoteosi; il rispetto al culto santo dei nostri Padri è chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori del proprio paese ricevono pensioni, che paga il pacifico contribuente. [...] Le Due Sicilie sono state dichiarate province d’un Regno lontano». Francesco II, tuttavia, non chiede vendetta, ma il pietoso oblio che risparmi la memoria di chi tradì, e la concordia necessaria per ricostruire: « Vi è un rimedio per questi mali, per le calamità più grandi che prevedo. La concordia, la risoluzione, la fede nell’avvenire. Unitevi intorno al trono dei vostri padri. Che l’oblio copra per sempre gli errori di tutti; che il passato non sia pretesto di vendetta, ma pel futuro lezione salutare» .

Il proclama destò grande sensazione nel Paese e la sollevazione popolare venne ad assumere proporzioni sempre più vaste. 
Nonostante le dure repressioni  , la guerriglia continuò per tutto l’inverno lungo la frontiera pontificia, mentre nelle altre regioni le rivolte si fecero sempre più frequenti e violente. Ancora qualche mese, poi, nella primavera-estate 1861 scoppiò l’insurrezione generale e migliaia di uomini si scateneranno contro gli oppressori, in una lunga, furiosa e disperata lotta . 
Anche la lotta alla Chiesa s’intensificò. In novembre il sabaudo luogotenente Farini, decretò che si aggiudicassero al fisco i residui beni di quei Vescovi assenti dalle loro diocesi «senza motivo canonico»; gl’interessati furono 37, costretti alla fuga dai garibaldini.  La Santa Sede reagì con disposizioni che vietavano il canto del Te Deum, la celebrazione della festa dello Statuto, l’appartenenza alla Guardia Nazionale, l’amministrazione dei sacramenti e la sepoltura ecclesiastica a chi avesse aderito e attivamente cooperato allo stabilimento del nuovo governo. 
Il 17 febbraio 1861 furono estesi alle Due Sicilie il codice penale e l’ordinamento giudiziario del Regno sardo; si dichiarò cessata l’efficacia del Concordato del 1818 e della convenzione del 1836 tra le Due Sicilie e la Santa Sede; venne introdotta la legge sarda del 1855 che sopprimeva gli ordini religiosi, tranne alcune eccezioni.  Questi provvedimenti causarono altri turbamenti: alle proteste del foro napoletano, che vide cancellate d’un colpo le sue gloriose tradizioni, si aggiunsero i tumulti del popolino, che, specie nei piccoli centri, perse le principali fonti di beneficienza, di assistenza e d’istruzione.  Il Cardinale Sforza, da poco rientrato dall’esilio decretatogli dai garibaldini, protestò con molta energia e venne nuovamente cacciato.  Garibaldi, da Caprera, scrisse all'eretico fra’ Pantaleo: «Noi siamo della religione di Cristo, e non della religione del Papa e dei cardinali [...] . Combatteteli a tutto potere [...] dovete attaccare il mostro che divora la nostra disgraziata madre»:  con un messaggio dell’1 ottobre 1861, Garibaldi raccomandava alla Guardia Nazionale di fare scomparire da quelle contrade le vesti ecclesiastiche, «simbolo per l’Italia delle miserie e delle vergogne di diciotto secoli» (P. BALAN , Storia d’Italia, Paolo Toschi, Modena 1898, vol. X, p. 347).

Francesco II resistette ancora, confortato dal Pontefice, che lo esortò  a «non cedere ad esigenze ingiuste, sostenendo fino agli estremi la santità dei propri diritti, giacché nel caso presente il cederli sarebbe lo stesso che cooperare al male» e partecipare «alle bestemmie, ai saccheggi, ai sacrilegi che si commettono dagli energumeni che liberamente sferrano la loro rabbia infernale contro la Chiesa di Gesù Cristo e contro la gran parte pacifica della società» . La guarnigione borbonica, colpita da un’epidemia di tifo e sottoposta a un micidiale e continuo bombardamento, non vacillò, incoraggiata anche dall’eroico comportamento della Regina Maria Sofia, che si prestò fino al limite delle forze, animando i combattenti sugli spalti, sprezzante del pericolo, attivissima e pietosa nei servizi di infermiera.  Il 19 gennaio 1861, Napoleone III, che aveva già cercato di indurre il Re di Napoli a deporre le armi , richiamò la flotta, che proteggeva Gaeta dal mare.  Con il sopraggiungere del blocco navale ogni resistenza diventò impossibile e il Sovrano accettò l’ennesima offerta di capitolazione, che venne firmata il 13 febbraio; quindi s’imbarcò per l’esilio definitivo, non senza rivolgere commosse parole di addio ai suoi soldati : «Grazie a voi è salvo l’onore dell’Armata delle Due Sicilie; grazie a voi può alzare la testa con orgoglio il vostro Sovrano; e sulla terra d’esilio, in che aspetterà la giustizia del Cielo, la memoria dell’eroica lotta dei suoi Soldati, sarà la più dolce consolazione delle sue sventure [...] . Non vi dico addio, ma a rivederci. Conservatemi intatta la vostra lealtà, come vi conserverà eternamente la sua gratitudine e la sua affezione il vostro Re Francesco».

La cittadella di Messina si arrese il 12 marzo [1861]; otto giorni dopo fu la volta di Civitella del Tronto, ultima roccaforte del governo legittimo.  Il 17 marzo, venne proclamato a Torino l'infausto e decadente  "Regno d’Italia". 



Il giorno seguente, con l’allocuzione concistoriale Jamdudum cernimus, Pio IX ricordò ancora una volta che «il combattere che si fa contro il Pontificato romano, non tende solamente a privare questa Santa Sede ed il Romano Pontefice di ogni suo civile principato, ma cerca ancora di indebolire, e se fosse possibile, di togliere affatto di mezzo ogni salutare efficacia della religione cattolica» ; di fronte a quella diabolica cospirazione, che produsse i suoi frutti insanguinati anche in Italia, il Pontefice pregava il Signore di volere «restituire alla società perturbata l’ordine e la tranquillità, e concedere la desideratissima pace, con quel trionfo della giustizia, che da lui solo aspettiamo. Imperocché [giacché] in tanta trepidazione dell’Europa e di tutto l’Orbe, e di coloro altresì che esercitano l’arduo uffizio di reggere le sorti dei popoli, Dio solo è che con noi e per noi possa combattere : Giudica noi, o Iddio, e discerni la nostra causa dalla gente non santa; concedi pace ai nostri giorni, giacché non è altri che combatta per noi, se non tu solo, Dio nostro».

Amedeo Gabriel Bellizzi

Fonte: Associazione Legittimista Trono ed Altare

Fonti:
P. BALAN , Storia d’Italia, Paolo Toschi, Modena 1898, vol. X. 
CARLO ALIANELLO , La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale, Rusconi, Milano 1972.
G. RÜSTOW , La guerra d’Italia del 1860 descritta politicamente e militarmente, Ve- nezia 1861, vol. II. 
GIORGIO CUCENTRENTOLI DI MONTELORO , La difesa della Fedelissima Civitella del Tronto. 1860-1861. 2a ed., Pucci Cipriani, Firenze 1978. 
AFFAELE DE CESARE , Roma e lo Stato del Papa, dal ritorno di Pio IX al XX settembre, Forzani e C., Roma 1907, vol. II.
GEORGE RODNEY MUNDY , La fine delle Due Sicilie e la Marina britannica, Berisio, Napoli 1966.
ALESSANDRO Luzio, La Massoneria e il Risorgimento italiano, Forni, Bologna 1925, vol. II.
RAFFAELE DE CESARE , La fine di un Regno, Newton Compton, Roma 1975, vol. II. 
ALDO ALESSANDRO MOLA , Garibaldi vivo. Antologia critica degli scritti con documenti inediti, Mazzotta, Milano 1982.
LAMBERTO RADOGNA , Storia della Marina Militare delle Due Sicilie (1734-1860), Mursia, Milano 1978.
PIER GIUSTO JAEGER , Francesco II di Borbone. L’ultimo Re di Napoli, Mondadori, Milano 1982.
G. GARIBALDI , Memorie, Rizzoli, Milano 1982.
G. GARIBALDI , I Mille, Camilla e Bertolero, Torino 1874.
CARLO PELLION DI PERSANO Diario privato, politico, militare, Torino 1889. 
OBERTO MASCIA , Ferdinando II e la crisi socio-economica della Calabria nel 1848, Regina, Napoli 1973.
IACINTO DE Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Berisio, Napoli 1964, vol. II. 
GIOVANNI CANTONI , L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA , Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977.
SILVIO VITALE , Il Principe di Canosa e l’epistola contro Pietro Colletta, Berisio, Napoli 1969.
ARCO TANGHERONI , prefazione a FRANCESCO MARIO AGNOLI , Andreas Hofer, eroe cristiano, Res, Milano 1979.
Giuseppe Garibaldi: una spada contro la Chiesa e la Civiltà Cristiana, in Cristianità, anno XI, n. 93, gennaio 1983.

Breve storia della Rivoluzione nelle Due Sicilie da Carlo di Borbone a Francesco II
Ultimo aggiornamento Venerdì 25 Aprile 2014 19:29  

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