A seguito dei fatti del luglio 1860, Messina era ormai da mesi in mano agli eserciti garibaldino e piemontese, solo le fortificazioni del porto falcato erano presidiate dall’esercito borbonico (4500 uomini) presso i presidi di: don Blasco, lunetta Carolina, Cittadella, batteria della Lanterna e SS. Salvatore (tutte opere ancora ben visibili), il cui punto di forza era la Cittadella comandata dal brig. De Martino, mentre il castello del SS. Salvatore era al comando del Brig. Anguissola (fratello del comandante della pirofregata Veloce, il quale nel luglio 1860 tradì consegnando la nave al nemico che la ribattezzò Tuckery) e le sue artiglierie dirette dal ten. col. Recco. Le uniche Piazze del regno duosiciliano che ancora resistevano erano quelle di Messina e Civitella, mentre Gaeta era caduta a metà febbraio.
Il giorno 25 febbraio 1861 l’esercito piemontese giunse a Messina (in cui dal settembre 1860 vi era la brigata Pistoia del magg. gen. Chiabrera, il quale aveva già intimato invano la resa della Cittadella) inizialmente col solo quartier generale, cominciando la ricognizione del territorio e lo studio delle difese nemiche. Ne risultò che le fortificazioni borboniche erano ben strutturate e quindi un attacco regolare per via di terra avrebbe creato gravi problemi, tuttavia dato che le batterie borboniche erano tutte in barbetta, senza alcuna protezione e dominate dalle alture circostanti, si optò per un attacco con le artiglierie, la cui efficacia avrebbe avuto ragione sul nemico. Presa tale decisione, il 26 febbraio mediante tre navi provenenti da Gaeta, fu sbarcato a sud della città presso Contesse un corpo di spedizione composto da: 4 battaglioni di fanteria, 3 di bersaglieri, 7 compagnie di artiglieria e 6 compagnie di genieri, che iniziarono i lavori di trinceramento e di sistemazione delle batterie e del materiale occorrente, insieme a tutte le strutture utili (strade, terrapieni, polveriere, depositi) nonché l’organizzazione del piano di fuoco. Ciò provocò la reazione del maresc. Fergola il quale lamentava il mancato rispetto di uno degli articoli della convenzione stipulata dal suo predecessore Clary e il gen. Medici nel luglio 1860. Seguì uno scambio di lettere tra il Cialdini e il Fergola, i quali fermi sulle rispettive posizioni non raggiunsero un accordo, provocando di fatto l’abrogazione della suddetta convenzione e la dichiarazione dello stato di guerra, con l’inizio delle ostilità il primo marzo. Nel frattempo i piemontesi sistemarono le loro artiglierie a varie altitudini sul versante sud-sud ovest della città posizionando 59 vari pezzi (il gen. Menabrea riferisce 55) di artiglieria suddivisi in 6 batterie al comando di due maggiori. Il comando generale spettava al generale di armata Cialdini (IV C.A.), quello delle artiglierie fu affidato al luogoten. gen. Valfrè, quello del Genio al luogoten. col. Belli, quello del parco di assedio al magg. Mattei, mentre al magg. gen. Avenati spettava il comando della fanteria.
Nello specifico il parco di assedio era composto da: 23 cannoni in ferro da 40 libbre rigati e 6 lisci, 10 cannoni da 16 in bronzo da campagna rigati e 6 da muro rigati, 12 mortai da 27 cm in ferro e 4 da 15 cm in bronzo, ciascun pezzo disponeva di 500 colpi.
Nel frattempo i borbonici si organizzavano per la difesa, diretta dal giovane ten. colonnello Patrizio Guillamat, pluridecorato, veterano e studioso nel campo delle fortificazioni e artiglierie, giunto sul posto nel mese di febbraio con l’incarico di direttore delle artiglierie e capo di SM della Cittadella (che aveva i depositi pieni di polveri e munizioni e accoglieva i familiari dei militi).
Egli dal giorno 4 marzo si occupò della sistemazione e dell’organizzazione delle batterie della Piazza, ma la mancanza di pezzi rigati (presenti a Gaeta) evidenziava l’impossibilità di una difesa adeguata contro le artiglierie piemontesi, invece in buona parte rigate (mod. Cavalli con canne a due righe e proietti cilindrico ogivali), il cui debutto su larga scala era avvenuto durante l’assedio di Gaeta.
Per cercare di risolvere il problema il Guillamat armò presso le opere di Santo Stefano (fronte sud della Cittadella) tre batterie per un totale di 42 pezzi lisci di cui: 16 cannoni-obici da 80 libbre (Paixhans), 13 da 36 libbre e 13 da 24. Non avendo tali artiglierie la capacità di raggiungere le principali batterie piemontesi, poste fuori tiro utile, in buona parte sulle colline a quote più elevate rispetto agli spalti della Cittadella, il Guillamat allo scopo di allungare il tiro, decise la sistemazione fissa dei pezzi, ovvero senza affusti, infossati e bloccati al suolo con massima elevazione di 42 gradi. Con tali modifiche erano tuttavia necessarie granate dotate di spolette programmate a circa 45 secondi, che però mancavano, ma l’ufficiale fece adattare le spolette di altre bombe programmate per 32 secondi e allungò il tempo di attivazione a 45 secondi intingendole in casse d’armi piene di terra fresca.
Questa idea consenti di estendere l’attivazione delle spolette al momento necessario, massimizzando gli effetti dei tiri sulle posizioni nemiche. Infatti già il 5 marzo le tre batterie borboniche modificate, cominciarono contemporaneamente a far fuoco contro gli appostamenti nemici e le navi in zona Contesse, colpendo giorno 11 un vapore piemontese. Il fuoco continuò nei giorni successivi e l’8 marzo, dopo un ultima vana lettera del Fergola al Cialdini che intimava la sospensione dei lavori, tutte le batterie borboniche della zona falcata accompagnate dal suono dell’inno nazionale aprirono il fuoco, tuttavia sospeso in alcuni presidi per via dell’eccessiva distanza degli obiettivi e per evitare che le granate cadessero sulla città. Tra il 10 e 12 marzo tre batterie piemontesi furono danneggiate (ma i lavori di sistemazione non si fermarono) con morti e feriti, tantochè venne mandato un ufficiale piemontese a complimentarsi per l’efficacia del tiro giudicato ammirevole, nel frattempo fu stabilito il fuoco continuativo diurno e notturno (4 colpi ogni 15 minuti), anche sui veicoli che trasportavano i materiali utili alle batterie nemiche e la sede del comando, nonostante la stanchezza dei serventi e i vari pezzi che cominciavano a difettare e rompersi per via dell’usura o l’atipica sistemazione senza affusti.
A mezzogiorno del giorno 12 marzo, sfruttando un periodo di relativa pausa nemica, i piemontesi che sino a quel momento non avevano reagito, tolsero i mascheramenti e iniziarono un preciso fuoco di neutralizzazione e interdizione con le batterie superiori, alle quali si aggiunsero quelle a quote più basse (costruite molto vicine alla posizioni nemiche e coperte alla vista dalla vecchia cinta daziaria, tanto che una batteria si era dotata di osservatorio). Nel contempo la squadra navale sarda tirava sulla Cittadella nonostante le condizioni meteo marine sfavorevoli.
Le batterie piemontesi fecero piombare sulle posizioni borboniche ben 4239 granate (da un rapido calcolo risulta che le granate nemiche giungevano ogni 5 sec), riducendone al silenzio le relative artiglierie. Il tiro diretto, incrociato e d’infilata piemontese durò ininterrottamente per 5 ore fu molto proficuo per via della posizione e quota delle batterie e della ridotta distanza degli obiettivi (minima di 400 metri e massima di 2000 metri circa) in relazione alla potenza e precisione delle artiglierie, che permetteva anche il fuoco al rovescio, ovvero sulle parti retrostanti gli obiettivi nemici. Le granate piemontesi inizialmente si concentrarono sull’opera meridionale più avanzata rispetto alla Cittadella ovvero il bastione Don Blasco dotato di 13 cannoni (già luogo di combattimenti a seguito di una sortita borbonica), seriamente danneggiato, quindi abbandonato sotto i colpi nemici e fatto saltare in aria a cannonate dagli stessi borbonici.
L’incendio che ne conseguì anche per via del bombardamento nemico che nel frattempo si era spostato sugli altri punti della Cittadella, si estese a causa del vento ai padiglioni limitrofi ad una delle polveriere, piena zeppa del munizionamento portato da tutti gli ex presidi siciliani. Il fuoco fece saltare in aria alcuni depositi munizioni minacciando praticamente tutta la fortificazione con grave rischio di esplosione, distruzione totale e sicura morte per gli occupanti, compresi i mille civili presenti. Nell’impossibilità di domare le fiamme sotto l’incessante tiro delle batterie piemontesi, alle ore 17 il maresc. Fergola chiese una tregua di 24 ore, accettata in parte. Dunque lo SM borbonico vista la grave situazione e l’impossibilità di resistere oltre, decise la resa a discrezione per il giorno 13 stabilita dal Cialdini e da comunicargli inderogabilmente entro le 21 dello stesso giorno, onde evitare la ripresa del tiro delle batterie piemontesi. Fu così diramato l’ultimo comunicato ufficiale borbonico e concesse le decorazioni al valor militare. Il giorno 13 marzo del 1861, spenti quasi tutti gli incendi, i soldati borbonici che lamentarono 47 morti, si arresero ufficialmente secondo le condizioni dettate dal gen. Cialdini, il quale non concesse l’onore delle armi, anzi fece arrestare e mettere sotto processo tutti gli ufficiali di SM, poi scagionati e rilasciati.
I tecnici dell’esercito piemontese crearono per i vari assedi delle Piazze nemiche, un’apposita commissione di studio circa gli effetti dei cannoni rigati e relativi proietti cilindrico ogivali sugli obiettivi nemici.
La Piazza di Messina fu dunque l’ultimo presidio di Sicilia e il penultimo del regno duosiciliano. Dopo la fine delle ostilità, nella Piazza fu conteggiato un totale di 455 artiglierie varie di cui 155 di bronzo e 300 di ferro, insieme a 267.000 chili di polvere sciolta e migliaia di pezzi tra affusti, attrezzi, fucili, sciabole, cartucce, munizioni e quant’altro.
Nello stesso anno, dopo la proclamazione ufficiale del regno d’Italia, i parlamentari La Farina e Plutino chiesero la demolizione della Cittadella, protagonista di ben 4 assedi in un secolo e mezzo.
Stolta richiesta fortunatamente mai posta in essere, anche se, dismessa la funzione militare dopo la fine del secondo conflitto mondiale, l’opera così come l’area circostante, fu via via devastata dal degrado e da miopi scelte politiche ed economico industriali, rilevatesi nel tempo a dir poco errate e fallimentari, i cui vergognosi risultati gravano sule spalle delle nuove generazioni.
A ciò si aggiunga la ancora diffusa mentalità “lafariniana”, mista ad una disarmante ignoranza storica, che insieme al persistente degrado e abbandono, contribuiscono tutt’oggi a privare ulteriormente i cittadini messinesi di tale meravigliosa porzione della città.
Armando Donato Mozer
Fonte: Comitato Storico Siciliano